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II. Il progetto internazionale


Con la fine della guerra si dà il via alla missione internazionale prevista dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Le contraddizioni giuridiche su cui si fonda tale missione e le controversie tra i diversi attori internazionali (Usa, Russia, Ue) sono cause del fallimento del progetto dell’Onu. Quest’ultimo si pone come obiettivo primario la stabilizzazione del Kosovo e di tutta la regione balcanica, attraverso la creazione di un’amministrazione provvisoria incaricata di avviare processi di riforma economica, politica e istituzionale. In questo modo si voleva creare un positivo precedente per la risoluzione pacifica di un conflitto. Ma la nobile iniziativa viene vanificata da una serie di ostacoli: interni, ossia la mancanza di trasparenza della struttura stessa  della missione e le ambiguità giuridiche sullo status del Kosovo, ed esterni, ossia le azioni contrastanti dei più importanti attori internazionali, che, dimostrando incapacità di accordarsi per uno status finale, determinano il fallimento della missione Onu, reso evidente dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza. Dunque in questo secondo capitolo vengono analizzate, oltre alla struttura della missione, le diverse posizioni di Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu e il controverso assetto giuridico del Kosovo, causa della sua perenne instabilità.


1. La sistemazione post-bellica


1.1 Fuori la Serbia dentro la Nato

Già l'11 giugno iniziano i problemi. I reparti britannici sono i primi a passare il confine del Kosovo, ma nella loro avanzata vengono preceduti da contingenti di paracadutisti russi che occupano l'aeroporto di Priština. La tensione è altissima: una crisi internazionale sembra davvero un'ipotesi reale. Fortunatamente  dal quartier generale della Nato si decide di evitare il confronto. Lo svolgersi degli eventi nelle settimane successive premierà questa scelta. Il piano della Russia, infatti, che con quel colpo di mano aveva voluto mostrare la propria disapprovazione per come la Nato aveva gestito la crisi e allo stesso tempo ottenere il controllo diretto di una parte del Kosovo, era fallito. Ai russi è concessa solo la dispersione di propri contingenti all'interno delle varie “zone d'occupazione” delle truppe britanniche, americane e tedesche della Nato.

All'ingresso delle truppe dell'Alleanza, tra cui anche quelle italiane, i soldati si trovano davanti a scenari agghiaccianti. Interi villaggi distrutti e deserti, città fantasma, odore di morte e di cadaveri ovunque, superstiti impauriti e affamati. Le milizie paramilitari serbe avevano saccheggiato, distrutto, stuprato e ucciso. In 78 giorni di conflitto 1 milione e 450 mila persone sono state costrette ad allontanarsi dai villaggi e dalle città. I più fortunati hanno trovato riparo nelle campagne o  nei boschi, ma ben 863 mila albanesi sono stati espulsi con la forza e sono ora sparsi tra Macedonia, Albania e Montenegro. Con il prosieguo delle perlustrazioni vengono trovate anche le prime fosse comuni. In totale ne saranno individuate 529, e solo un anno dopo il Comitato della Croce rossa internazionale sarà in grado di presentare un “libro bianco” che elenca i nomi di 3368 dispersi.

Ma al caos e alla devastazione post-bellica si aggiunge anche la vendetta degli albanesi. L'Uçk, lungi dall'essere una realtà del passato, ancora una volta si rende responsabile di violenze, questa volta direttamente verso la popolazione serba. Uccisioni, rapimenti, sparizioni, abitazioni incendiate. L'Esercito di liberazione del Kosovo si mette sempre più in contrapposizione con la Nato, nonostante un accordo tra Jackson e Thaci, il 19 giugno, che prevedeva la smilitarizzazione dell'Uçk. Ora i serbi sono costretti più di prima a rinchiudersi in piccole enclave controllate dalle truppe Nato.

Nel frattempo ai vertici delle Nazioni Unite si sta organizzando quella che sarà la missione internazionale in Kosovo, l'Unmik. Il Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan, nomina Bernard Kouchner, fondatore di Medici senza frontiere, “rappresentante speciale”.  Nei rapporti successivi viene delineata l'architettura dell'intervento, che poggerà su una struttura a quattro pilastri. In più verranno nominati cinque super-prefetti dotati di poteri ampissimi (esecutivo, giudiziario, legislativo e diritto di supervisione sui media), ognuno in uno dei cinque distretti in cui viene suddiviso il Kosovo: Priština, Peć, Mitrovica, Prizren, Gnjilane.

All'interno di questa cornice inizia l'esperienza del dopoguerra in Kosovo e il difficile cammino della missione internazionale. Le ambiguità giuridiche su cui si fonderà tale missione mineranno alla base l’efficacia del progetto internazionale di stabilizzazione e democratizzazione del Kosovo. Del resto il contesto non è dei più favorevoli. Sin dall'inizio gli amministratori internazionali devono affrontare il problema del ritorno dei rifugiati.

Come se non bastasse, in un'economia già di per sé arretrata, colpita duramente dagli effetti della guerra, si infiltrano anche le varie bande criminali e della mafia locale o albanese che prendono il controllo su molte attività, soprattutto traffici illeciti. Inoltre la crescente instabilità dei vicini, causata appunto dalla guerra, ha permesso la creazione di un vero e proprio network criminale, il cosiddetto triangolo Macedonia- Kosovo-Albania, che sfruttando i non rari fenomeni di collusione tra politica e mafia dà il via anche una spirale senza fine di corruzione e delinquenza. Attività illegali quali contrabbando di armi, sfruttamento della prostituzione, trasporto di clandestini, servissero a finanziare il riarmo della guerriglia albanese che andava a operare nella Serbia meridionale.

Tuttavia in questo marasma politico, sociale ed economico viene lanciato il Patto di stabilità per l'Europa sud-orientale con il summit del G8 del 10 giugno 1999 che andrà a costituire la struttura di base entro la quale si collocheranno gli investimenti delle istituzioni finanziarie internazionali (Banca mondiale, Banca europea per gli investimenti, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo).

Passando al tema della sicurezza, il 18 settembre l'Uçk è ufficialmente sciolto e  pochi giorni dopo nasce il Kosovo Protection Corps che, nella speranza di porre fine alle vendette, cerca di inglobare i guerriglieri in una sorta di protezione civile. Migliaia di armi vengono distrutte e altre consegnate spontaneamente. Ma tutto ciò non è che una finzione di quello che in realtà accade dietro la facciata. Si calcola che tra il 1988 e il 1999 l'Uçk abbia acquistato circa 100 mila armi e la maggior parte di queste sono ancora nascoste negli arsenali della Drenica. Si scopre infatti un piano di mantenimento di una struttura armata clandestina. Per rispondere alle numerose critiche e alle pressioni di Washington, Kouchner, dopo difficili trattative con i vari esponenti della leadership albanese, ottiene la formazione di un governo transitorio del Kosovo. Da parte albanese, sia di Rugova che di Thaci, governo provvisorio significa processo che presto o tardi porterà all'indipendenza, mentre una tale svolta non è di certo nei piani dell'Onu. È bene sottolineare ancora una volta come questa mancanza di chiarezza sullo status giuridico della Provincia sia motivo di aspre tensioni interne ed esterne. Questo fatto, in aggiunta agli approcci contrastanti e contradditori dei grandi attori internazionali costituiscono le cause profonde del fallimento della missione.

Tuttavia il 31 gennaio 2000 si insedia formalmente la nuova amministrazione provvisoria del Kosovo. Ma è proprio nei primi mesi del 2000 che esplodono le maggiori violenze.

Il 7 marzo del 2000 Kouchner, in audizione al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, per la prima volta parla di possibile fallimento della missione. Infatti oltre a tutti i problemi legati alla convivenza interetnica e alla ricostruzione post-bellica se ne aggiunge un altro, che forse è quello più controverso. La polizia internazionale infatti non riesce in alcun modo a contrastare i potenti clan mafiosi che hanno instaurato un vero e proprio “contro potere” in contrapposizione a quello legittimo dell'Unmik e della Kfor.

L'unica nota positiva a chiudere l'annata è l'esito delle elezioni amministrative in Kosovo, del 28 ottobre 2000. Il risultato premia la Ldk di Rugova che ottiene il 58% dei consensi contro solo il 27%  per il Partito democratico del Kosovo (Pdk) di Thaci e il restante 7% all'Aak di Haradinaj. Così nei fatti il popolo kosovaro vota ufficialmente per la non violenza e la moderazione di Rugova, contro l'estremismo militante dell'Esercito di liberazione del Kosovo.

Ad aggiungersi a questo evento c'è anche, finalmente, la caduta di Milošević in Serbia, decretata dalla volontà popolare tramite libere elezioni. Queste ultime, svoltosi circa un mese prima di quelle in Kosovo, hanno decretato la vittoria dell'Opposizione democratica serba (Dos) e del suo leader Kostunica.

L’analisi della struttura della missione Onu aiuta a capire le ambiguità su cui si fonda l’ambizioso progetto internazionale, unico nel suo genere. Gli obiettivi della stabilizzazione e dell’institution-building non saranno mai davvero raggiunti. L’asseto dell’amministrazione di fatto renderà difficile il processo di democratizzazione, basato sulla formazione del personale amministrativo locale. Vediamo perché.


1.2 Il sistema dei mandati

Il mandato internazionale è direttamente legittimato dalla risoluzione Onu 1244 del 10 giugno 1999, che a sua volta si rifà alle conclusioni raggiunte dal G8 di Petersberg del 6 maggio 1999. I Ministri degli Esteri qui riuniti hanno redatto una lista di princìpi per una soluzione politica della crisi in Kosovo. La missione fa riferimento sostanzialmente a due mandati.

1.2.1 Il mandato Unmik. La risoluzione 1244 va a costituire la base giuridica della presenza internazionale in Kosovo e tutte le future modifiche giuridiche della missione dovranno tenere conto di essa. In sostanza con l'approvazione di questo documento il Consiglio di Sicurezza (CdS), ma in generale le Nazioni Unite, prescrivono la necessità di mantenere sul campo “un'amministrazione civile e di sicurezza provvisoria” ( che in seguito si chiamerà Unmik) che abbia pieni poteri, anche rispetto ai governanti locali, e che faccia capo a un Rappresentante Speciale direttamente nominato dal Segretario Generale (RSSG).

L'eccezionalità di questa missione riguarda in particolare un aspetto: ossia l'Onu, per la prima volta nella storia, affida la gestione diretta di alcuni compiti ad altre organizzazioni internazionali. In particolare l'Unione Europea, l'Osce e la Nato. Non solo, nella risoluzione 1244 si auspica anche l'implementazione del Patto di Stabilità per l'Europa Sud-orientale al fine di poter inserire gli investimenti per il Kosovo all'interno di una più ampia cornice regionale in materia di promozione della democrazia, sviluppo economico, stabilità e cooperazione. In particolare le funzioni del mandato sono le seguenti: lo svolgimento delle “funzioni di base di un'amministrazione civile” e il “rispetto del diritto e della convivenza civile”, supportati dal dispiegamento di una forza di polizia internazionale e il graduale trasferimento delle responsabilità amministrative alle istituzioni del Kosovo. Inoltre la risoluzione 1244 prevede il supporto ad un processo di democratizzazione (in particolare l'organizzazione e il monitoraggio di libere elezioni e la promozione e protezione dei diritti umani), l'assistenza umanitaria, e il sostegno a un risanamento economico e alla ricostruzione delle principali infrastrutture.

1.2.2 Il mandato Kfor. La risoluzione prevede e auspica la partecipazione di altre organizzazioni internazionali in particolare nel campo della sicurezza, dello sviluppo economico e dell'institution-building. Per gli ultimi due punti di sicuro le più adatte sono, rispettivamente, l'Unione Europea e l'Organizzaione per la sicurezza e  la cooperazione europea (Osce). Il campo della sicurezza presenta alcune ambiguità poiché fa riferimento al dispiegamento di una Kosovo Force (KFOR) la cui composizione non è ben chiara, ma che prevede una “sostanziale partecipazione dell'Organizzazione del Patto Atlantico”, con controllo e comando unificati, che deve svolgere funzioni di ordine pubblico e controllo del territorio. Alla fine anch'essa andrà sotto il diretto comando del RSSG, cioè dell'UNMIK, di cui di fatto ne diventerà il braccio armato. In pratica le funzioni della KFOR comprendono classiche operazioni militari e di polizia. Inoltre le forze armate internazionali devono anche garantire l'assistenza all'Unmik, proprio creando le condizioni di sicurezza per il suo funzionamento, ossia protezione fisica dei funzionari, mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblica, sminamento, pattugliamenti, sorveglianza aerea, posti di blocco, risposta a chiamate d'emergenza, operazioni di ricerca e così via.


1.3 La struttura della missione internazionale

Il 12 giugno 1999 il Segretario Generale delle Nazioni Unite presenta un rapporto al Consiglio di Sicurezza in cui viene delineata l'architettura dell'Unmik. In particolare viene introdotta la cosiddetta struttura a quattro “pilastri” che dovrà favorire l'applicazione sul campo delle direttive impostate dal Rappresentante Speciale. Vediamone in dettaglio l'organizzazione: il ruolo del RSSG, i quattro “pilastri”, la Kfor e il Patto di Stabilità.

1.3.1 Il Rappresentante speciale del Segretario Generale. L'Unmik ha pieno potere legislativo, giudiziario, ed esecutivo, nel rispetto dell'apparato normativo jugoslavo vigente fino al 1989, anche se solo nella misura in cui queste leggi non contrastino con gli standard internazionalmente riconosciuti in materia di diritti umani. Alla luce di ciò il RSSG ha l'autorità per emanare delle Regulation che andrebbero ad abrogare o sostituire le suddette norme. Infatti, nei rapporti che seguono, il Segretario Generale interpreta i contenuti della risoluzione 1244 in materia di potestà governative dei funzionari Unmik, assegnando all'amministrazione civile ad interim tutti i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari sul territorio e sul popolo del Kosovo. Tale autorità è totalmente compresa nelle competenze del Rappresentante Speciale. In questo modo l'Unmik si assume l'intera responsabilità della gestione politico-amministrativa in ogni campo dell'attività statale. Il che comporta, ad esempio, decisioni politiche autonome, la convocazione di elezioni, la gestione delle relazioni esterne al Kosovo, e con ciò l'implicita assunzione della suprema autorità dell'apparato internazionale sui soggetti locali. Insomma l'Unmik è “l'unica autorità legittima in Kosovo”.

1.3.2 I quattro “pilastri”. La missione internazionale si articola secondo quattro aree di intervento, denominate quattro “pilastri”, ognuna delle quali è gestita direttamente dall'organizzazione internazionale più adatta a farsi carico di tali compiti. L'amministrazione civile è sotto diretta responsabilità dell'Onu, l'assistenza umanitaria è garantita dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), l'institution-building è gestito dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), mentre l'Unione Europea dirige il processo di ricostruzione fisica della regione. Ognuno di questi pilastri fa riferimento a un Vice rappresentante speciale del Segretario Generale, il quale a sua volta deve rendere conto delle attività svolte al RSSG ed è incaricato di coordinare i lavori dei vari organismi che operano sotto l'egida dell'organizzazione internazionale di riferimento.

Il I pilastro, ossia l'amministrazione civile, prevede lo svolgimento delle classiche funzioni degli organi amministrativi di uno stato, operando in materia di sicurezza pubblica, affari giudiziari  e tutti gli altri settori tipicamente ad appannaggio della gestione pubblica ( ad esempio la gestione delle finanze pubbliche, dei beni demaniali, delle strutture sanitarie, dell'istruzione, delle poste e delle telecomunicazioni, dei trasporti, ecc.). La struttura di questo pilastro è stata modificata nel 2000 con una Regulation del Rappresentante Speciale, che ha istituito una Joint Interim Administrative Structure (JIAS) nella quale si cerca di inserire le forze politiche locali dando loro voce in capitolo nel processo decisionale. Viene creato, dunque, l'Interim Administrative Council (IAC), che funge da esecutivo, formato da una direzione collegiale di otto membri (quattro internazionali, cioè i rappresentanti di ogni pilastro, più tre di etnia albanese e uno di etnia serba) che ha il potere di rivolgere raccomandazioni al RSSG e di consulta per l'emanazione di emendamenti alla normativa vigente o per l'adozione di nuove Regulation. Alla base di questa modifica c'è un importante accordo, del 13 dicembre 1999, che Kouchner è riuscito a ottenere fra i tre principali leader albanesi: Rugova, Thaci e Qosja. Questi, come pattuito, si sarebbero alternati come vicepresidenti al fianco di Kouchner. In seguito verranno istituiti dei Dipartimenti amministrativi co-presieduti da un funzionario internazionale e da un rappresentante kosovaro, di modo da iniziare un graduale passaggio di mano alle istituzioni locali. Questo sistema si applica anche a livello locale, sebbene svolga funzioni di semplice consultazione e non abbia veri e propri poteri decisionali. La creazione di questo governo bicefalo si inserisce in un piano più ampio di Kouchner, con il quale tenta di annullare le istituzioni parallele create dai kosovari (sia il “governo provvisorio” di Thaci che la repubblica “parallela” di Rugova) e di rendere vani i proclami per l'indipendenza del Kosovo. Così l'amministrazione internazionale pecca in fatto di democraticità in favore della stabilità ( mai raggiunta). L'Interim Administrative Council si insedia formalmente il 31 gennaio 2000.

Il II pilastro, ossia l'assistenza umanitaria, è guidato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). Già la risoluzione 1244 prevedeva che l'Unhcr fornisse ai rifugiati aiuto e assistenza umanitaria e un sicuro ritorno di essi nelle proprie case. Inoltre già durante la guerra erano stati allestiti numerosi campi profughi nei paesi vicini; semplicemente con l'avvio ufficiale della missione internazionale questa situazione viene “istituzionalizzata”. Alcuni esempi concreti dei servizi forniti da questa agenzia delle Nazioni Unite sono: la riabilitazione degli alloggi, l'approvvigionamento alimentare, la fornitura di acqua potabile e l'assistenza medica e psicologica delle vittime, la predisposizione di vie di accesso scorrevoli e così via. Molto importante è anche lo sminamento delle zone volte ad accogliere queste persone e con esso un'intensa campagna di prevenzione anti-mine. Insomma l'Unhcr ha il compito di elaborare un piano d'azione a lungo termine volto a  favorire il ripristino delle basilari condizioni materiali e psicologiche per un ritorno dei centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati vittime della guerra, e la ricostruzione di una base fisica per l'organizzazione delle relazioni sociali in Kosovo.

Con il III pilastro, ossia l'institution-building e la democratizzazione, l'Onu delega all'Osce forse il compito più difficile nel complesso panorama politico-istituzionale del Kosovo, cioè la promozione dei concetti di democrazia e good governance. In una regione che ha sperimentato 45 anni di regime comunista e reduce da dieci anni di repressione è senz'altro un'opera immane. Intervenire in quest'area molto delicata significa gettare le basi per lo sviluppo di un sistema democratico, multipartitico, fondato sull'associazionismo locale e il pluralismo politico, avendo come priorità assoluta la formazione del personale amministrativo a qualsiasi livello, di modo che sviluppi una mentalità e un modus operandi che tengano conto di concetti quali l'efficienza e la trasparenza. Particolare attenzione è rivolta soprattutto al sistema giudiziario e al tema dei media e dell'informazione, ancora privi di adeguata imparzialità, al fine di evitare che vengano usati come strumenti di propaganda o diffamazione contro le altre etnie. Collegato a questo permane l'aspetto dei diritti umani. Ma il settore di maggior interesse dell'Osce è l'organizzazione e il monitoraggio delle elezioni, impegnandosi a garantire che si svolgano in modo libero ed imparziale.

Infine, la ricostruzione fisica e materiale della regione è affidata all'Unione Europea con il IV pilastro. I compiti principali dell'Ue sono il finanziamento dell'impresa, la pianificazione e il monitoraggio dello sforzo di riabilitazione delle infrastrutture e dell'economia in generale. Da Bruxelles ci si aspetta l'elaborazione e l'attuazione di politiche economiche e finanziarie che massimizzino l'impatto del flusso di fondi internazionali destinati al Kosovo, e il coordinamento tra istituzioni finanziarie internazionali e donatori locali. L'obiettivo a lungo termine è la creazione di un'economia di mercato dinamica e sufficientemente competitiva, che si possa integrare con le altre economie della regione.

1.3.3 La Kosovo Force. Il 9 giugno 1999 veniva firmato il famoso accordo di Kumanovo (Military Technical Agreement) con il quale si pone fine alle ostilità tra Nato e esercito serbo. L'accordo prevede il ritiro dell'Armata federale jugoslava e l'ingresso dei militari della Nato e del personale delle organizzazioni internazionali. Inoltre la risoluzione 1244 assegna alla Nato tre obiettivi principali: stabilire e mantenere la sicurezza in Kosovo, incluso il rispetto dell'ordine pubblico; monitorare, verificare e implementare i contenuti dell'accordo tecnico-militare e di quello siglato con l'Uçk; assistere la missione Onu in Kosovo. La Kfor è composta da 50 mila militari provenienti da 28 nazioni. In particolare sul territorio del Kosovo si trovano 42 500 soldati, mentre i restanti hanno il compito di gestire le retrovie in Macedonia, Albania e Grecia. Le forze della Kfor sono organizzate in 5 brigate internazionali, ciascuna a sorveglianza di un determinato settore.

1.3.4 Il Patto di stabilità. Il 10 giugno 1999 viene sottoscritto a Colonia il Patto di Stabilità per l'Europa sud-orientale (Stability Pact for Southeastern Europe). Il documento è firmato dai ministri degli Esteri di 29 Stati (i 15 membri Ue, i paesi dell'area balcanica - RFJ esclusa -, Stati Uniti, Canada, Russia, Giappone), dai rappresentanti delle più importanti organizzazioni internazionali a carattere politico, militare, economico e finanziario (ONU, OSCE, Commisione Europea, Consiglio d'Europa, NATO, OCSE, WUE, FMI, UNHCR, EIB, EBRD, Banca Mondiale) e da istituzioni e iniziative intergovernative regionali (Royamont Process, Iniziativa centro-europea, Iniziativa di cooperazione per l'Europa sud-orientale, Processo di cooperazione per l'Europa sud-orientale, Cooperazione ecnomica del Mar Nero). Il Patto è volto a definire un approccio di cooperazione e apertura economica, di modo che i Paesi balcanici siano costretti a coordinare le proprie economie, in accordo con un'idea di crescita economica regionale, al fine di creare le condizioni per la stabilità e lo sviluppo di tutta l'area balcanica. Nei fatti il Patto comporta che alla concessione di finanziamenti e prestiti corrisponda, da parte dei beneficiari, l'impegno a conformarsi a pieno agli standard occidentali in materia di democratizzazione, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e adozione delle regole proprie di un'economia di mercato. Gli sforzi dimostrati per il rispetto di tale impegno potranno eventualmente concretizzarsi in integrazione negli organismi di cooperazione europei ed atlantici.

Dunque il Patto di Colonia va  a inserirsi in un più ampio quadro di riorganizzazione delle relazioni internazionali nella regione balcanica. Con grave ritardo la comunità internazionale sembra voler mettere davvero in pratica una politica di diplomazia preventiva, volta a stabilizzare definitivamente quest'area fortemente instabile. In questo senso è da interpretare anche il complesso “sistema istituzionale” creato dall'Onu in Kosovo. Bisogna comprendere come non ci siano precedenti nella storia delle relazioni internazionali. Uno Stato sovrano (la Serbia) si vede effettivamente tolto il controllo di una parte di territorio, legalmente sotto la sua sovranità, per essere gestito da funzionari internazionali, sotto l'egida delle Nazioni Unite, che si prendono carico direttamente dell'amministrazione della società, a ogni livello e in ogni ambito (dalle istituzioni politiche alle forze di sicurezza).

C'è da sottolineare però come il mandato non prenda in considerazione alcuna prospettiva di indipendenza, anzi come ribadisca più volte la necessità di sviluppare delle competenze di autonomia e auto-governo all'interno della Repubblica Federale di Jugoslavia. Questa ambiguità giuridica di fondo, invece di ottenere legittimazione della missione, ne indebolisce fortemente l’efficacia, e il progetto internazionale ne risulta compromesso. Infatti come si può formare un governo auto-sufficiente se tutto il potere a ogni livello dell’amministrazione è gestito dai funzionari internazionali? Come si può favorire un reale processo di democratizzazione se di fatto il popolo non vota i propri governanti?

Il vero grande limite della missione è la mancanza di un chiaro obiettivo politico. In pratica il Kosovo si trova in una situazione di vuoto di autorità lasciato dal ritiro della RFJ dalla regione, in cui l'Onu crea ex novo una struttura amministrativa che si occupa della società in ogni settore, dalle istituzioni politiche alla fornitura dei più banali servizi pubblici, e a ogni livello, dalle alte cariche di governo alla gestione locale delle infrastrutture. Insomma il vero problema è come, quando e a chi lasciare il potere reale di governo sul Kosovo.


2. Attori internazionali e interessi regionali

Le controversie diplomatiche derivanti dalle diverse posizioni degli attori internazionali, secondo il modello Usa-Ue contro Russia, sono anch’esse causa profonda del fallimento della missione. Le continue dispute sulla legittimità o meno dell’intervento Nato (e l’assetto che ne deriva) e sullo status giuridico del Kosovo ostacolano il raggiungimento di un accordo anche tra le parti direttamente interessate, ossia serbi e albanesi kosovari. In questo modo si vanifica, di fatto, lo stesso progetto internazionale che perseguiva un obiettivo di democratizzazione e stabilizzazione del Kosovo, funzionale a tutta la regione balcanica.


2.1 Gli Stati Uniti e la Nato

L’approccio americano in Kosovo non è di facile lettura. Sulla decisione finale di intervenire con la forza influisce in particolare il contesto politico internazionale degli anni ’90. Negli ultimi anni del XX secolo, infatti, si è verificato un evento di portata storica che ha cambiato gli equilibri di potere a livello globale, ossia la dissoluzione dell’Unione Sovietica e dunque la fine del sistema bipolare. Nel giro di poco tempo gli Stati Uniti si sono trovati in mano un enorme concentrazione di potenza, con il problema fondamentale di capire come gestire tale potere. Inizialmente la tendenza, a Washington, è quella di evitare interventi diretti laddove gli interessi americani non siano direttamente minacciati. Tuttavia una serie di questioni mediaticamente rilevanti permettono all’amministrazione Clinton di testare fino a che a punto la potenza americana poteva spingersi e su che linea strategica impostare le proprie azioni. Scelse, dunque, per un “interventismo umanitario”, di certo non privo di contraddizioni, cioè in “difesa di una causa”, ossia giustificato “moralmente” in nome dei diritti umani. Il Kosovo non è che il caso più particolare (per tutti gli aspetti sopra descritti), attraverso il quale gli Stati Uniti vogliono mostrare di essere l'unica superpotenza in grado di proiettare la propria forza ovunque nel globo, sia in termini di hard power che di soft power. Tuttavia, memori delle recenti esperienze, ci vanno sicuramente più cauti. Infatti durante tutto l'arco della crisi, sebbene siano in prima linea nella battaglia diplomatica con Milošević, non smettono mai di sottolineare che un eventuale intervento sarebbe avvenuto non da parte dell'esercito americano, ma delle forze Nato. In questo modo se non ci fosse stato una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza (come appunto avvenne), l'intervento sarebbe stato legittimato implicitamente, poiché condotto per volontà di più Stati, decisi a porre fine a una situazione di instabilità che avrebbe avuto ripercussioni più gravi. Alla luce di queste considerazioni generali vediamo nel dettaglio quali sono le motivazioni dell'intervento date dagli Stati Uniti, i loro obiettivi in ambito Nato, la rilevanza strategica dei Balcani e l'approccio dominante in seguito all'avvio della missione internazionale.

Prima di tutto è bene sottolineare che le dichiarazioni ufficiali non sempre, anzi quasi mai, corrispondono ai reali obiettivi. Nel suo discorso alla nazione Clinton parla di necessità di “impedire la bonifica etnica, e di evitare che la crisi degeneri in una guerra più ampia innescando una polveriera nel cuore dell'Europa”. Dunque queste dichiarazioni si inseriscono nel quadro sopra delineato. Ma quali erano i veri obiettivi degli Stati Uniti? Il primo è evidentemente quello di allargare il ruolo della Nato verso est, cercando magari di inglobare le nuove Repubbliche ex membri del Patto di Varsavia, con il chiaro intento di indebolire ulteriormente la Federazione Russa nei Balcani. Secondo obiettivo, evidentemente non dichiarato, era quello di minare alla base il processo di sviluppo di una politica di difesa europea. Quest’ultima, unita a un sempre maggiore riconoscimento del ruolo europeo all'interno dell'Alleanza Atlantica (con gli Accordi Berlin Plus del giugno 1996 relativi all'Identità Europea di Sicurezza e di Difesa, IESD), preoccupavano Washington che temeva un progressivo sganciamento europeo dagli obblighi della Nato, e di conseguenza una perdita dell'importanza americana nel teatro europeo. Terzo, gli Stati Uniti vogliono far capire alla comunità internazionale, impersonata dalle Nazioni Unite, il peso dell’egemonia americana.,. È necessario dunque che il ruolo dell'Onu sia fortemente ridimensionato e che venga messa in atto un politica di delegittimazione nei confronti dell'Organizzazione. Gli Stati Uniti vogliono far capire ai vertici alti del Palazzo di Vetro che in fin dei conti sono sempre le grandi potenze che comandano, e quindi hanno potere decisionale; il Segretario Generale ha solo funzioni di attuazione. Quarto, i Balcani rappresentano un'area geostrategica per il controllo delle rotte del petrolio dal Caucaso e dal Mar Nero, cioè un'importante alternativa agli impegnativi investimenti nel Medio Oriente. Inoltre la costruzione del corridoio VIII traccerebbe una linea di collegamento Bulgaria-Macedonia-Albania che taglierebbe fuori la scomoda Serbia e, soprattutto, la Russia. Quinto obiettivo, ma non meno importante, era quello di liberarsi una volta per tutte di Milošević, che rappresentava un forte elemento di instabilità e tensione nella regione; obiettivo quindi fondamentale per il buon esito degli altri.

Dunque alla luce di queste considerazioni si capisce come la politica americana sia mutata nel giro di breve tempo nei confronti della regione balcanica. Dapprima sottovalutata, considerata una questione meramente europea e priva di interessi diretti per gli Stati Uniti, la crisi del Kosovo si è presto trasformata in una sfida per la stessa sopravvivenza della Nato e per la credibilità dell'America. Il fatto che gli Usa siano scesi in campo con tanto impegno può essere un segnale allo stesso tempo di due fattori divergenti: l'enorme superiorità americana oppure la sua debolezza. Infatti si può interpretare l'intervento Nato come dimostrazione di forza, legato alla volontà di mantenere quell'interdipendenza economica che sta alla base dell'egemonia americana (soprattutto in Europa), e che è pericolosamente minacciata dall'instabilità dei Balcani, poiché va a riflettersi nei rapporti con i vicini regionali. Oppure si può leggere come segnale di perdita di potere, soprattutto di quel soft power economico e finanziario che fin'ora aveva garantito la supremazia statunitense, ma che tuttavia necessitava di una dimostrazione di potenza militare proprio per ribadire quei rapporti che venivano meno sul piano politico-economico nel sistema globale americano.

Ma gli obiettivi preposti sono stati raggiunti? Innanzitutto la fine della guerra non determinò la caduta del regime di Milošević, per la quale bisognerà aspettare ancora un anno, contrariamente a quanto immaginato dall'amministrazione Clinton. Allo stesso modo l'Unione Europea non viene frenata nel suo progetto d'integrazione economica. Tuttavia è evidente come la Nato esca di certo rafforzata dal conflitto, a discapito del programma difensivo europeo. Parimenti ha funzionato anche l'approccio duro nei confronti dell'Onu. Non è un mistero che le Nazioni Unite stiano attraversando una crisi profonda. Ma nonostante tutto ciò sembra che la tendenza americana sia sempre più quella di un graduale disimpegno nell'area, anche a seguito di eventi, quali l'11 settembre, che hanno cambiato gli equilibri mondiali e spostato l'attenzione di Washington verso altri teatri operativi (il Medio Oriente, Afghanistan e Iraq in particolare). Come giustamente sostenne Zimmermann, ex ambasciatore americano in Jugoslavia, gli Usa avrebbero dovuto mantenere una presenza simbolica in Kosovo, per la credibilità della Nato, ma allo stesso tempo promuovere un maggior impegno delle forze europee. Cosa che in effetti avvenne in modo graduale durante il periodo della missione Unmik.


2.2 La Russia

La Russia ha avuto un approccio piuttosto ostile rispetto all'intervento della Nato e al modo in cui l'Occidente ha gestito la crisi. Rambouillet e la campagna aerea hanno significato per essa una grossa umiliazione, dando un duro colpo al suo ruolo e alla sua credibilità internazionale. Alcuni analisti tendono a suddividere la questione secondo tre criteri: motivi di politica estera, motivi culturali, e motivi di politica interna.

Primo, come per gli Stati Uniti così anche per la Russia non si può prescindere da considerazioni più generali del semplice episodio regionale. Infatti sin dal collasso dell'Urss lo Stato che ne rimane, evidentemente molto indebolito e ridimensionato, si ritrova dall'essere un centro di potere globale al dover riacquistare prestigio e attrattiva nei confronti degli stessi Stati limitrofi. Durante gli anni '90 la Russia è presa con una riorganizzazione socio-politica interna, e con il tentativo di riacquistare un ruolo politico internazionale. Dunque, come per gli Stati Uniti, la crisi del Kosovo si inserisce nel quadro di una più ampia strategia globale a lungo termine, ossia il tentativo di tornare ad essere un polo di potere indipendente. Ne deriva una volontà di rafforzare quei forum nelle istituzioni internazionali dove la Russia può ancora esercitare un ruolo globale di primo piano, come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per questo motivo spinge tanto, durante la crisi kosovara, per una legittimazione che passi per il Consiglio di Sicurezza, organo in cui la Russia è un potente membro permanente.

Secondo, il cosiddetto “pan-slavismo”, per quanto possa essere ritenuto irrilevante, in realtà ha giocato un ruolo importantissimo, soprattutto nell'influenzare le percezioni dell'opinione pubblica russa, e di conseguenza nell'impostazione della politica estera da parte della leadership al governo. Inizialmente, infatti, i russi hanno fortemente condannato l'attacco Nato, e anche in seguito, quando le prime notizie della pulizia etnica cominciarono a trapelare anche nei media russi, la gente mutò solo leggermente la propria opinione. La Jugoslavia era considerata sempre la vittima dell'aggressione delle grandi potenze, e non era giusto attribuire solo ai serbi la responsabilità di quello che stava avvenendo in Kosovo.

Terzo, queste opinioni per forza di cose andavano a riflettersi anche sulle azioni e sulle dichiarazioni ufficiali del Cremlino, che otteneva una crescita di consensi interni. Infatti la politica estera era un campo in cui sembrava che l'élite al potere avesse ancora un ampio consenso nazionale, sia a livello popolare che a livello delle diverse forze politiche.

Ma la politica russa nell'era post-bipolare, compresa quindi la crisi del Kosovo, si può comprendere bene solo se si tiene conto delle complicate relazioni con l'Alleanza Atlantica e il forte risentimento e opposizione al processo di allargamento della Nato. Quest'ultima è vista da Mosca ancora come un'arma principalmente mirata al contenimento russo. Come detto la Nato aspira a diventare non solo il garante della sicurezza europea, ma anche globale, con la messa in atto di una serie di missioni “out-of-area, dimostrando grande capacità di proiettare forze di pronto intervento anche in zone molto distanti, fuori dell'orbita europea. Tutto ciò preoccupa la Russia perché significa che l'Alleanza potrebbe intervenire ovunque lo ritenga necessario per la difesa dei propri interessi, eventualmente anche nelle zone da sempre considerate da Mosca come rientranti nella propria sfera d'influenza. E la crisi del Kosovo non fa che accentuare questa percezione. È così che comincia a delinearsi il tema del “pericoloso precedente” Kosovo, che tra l'altro, come vedremo, non tocca solo la Russia. In territorio russo ci sono ancora numerose questioni di rivendicazioni territoriali irrisolte: la Cecenia, l'Ossezia del Nord, il Daghestan. Dal Cremlino temono che il caso kosovaro possa ridare adito a tentativi separatisti. La mano pesante utilizzata da Putin contro i ribelli ceceni all'inizio del suo mandato è volta appunto a reprime una volta per tutte le euforie.

La politica estera della Russia verso la crisi del Kosovo si sviluppa in tre fasi. Inizialmente si oppone fortemente al bombardamento. Questa fase è caratterizzata dall'accentuazione del carattere emotivo e culturale che deriva da una risposta “a caldo” alla campagna militare occidentale. In un secondo momento, vedendo che la Nato non cedeva e non si sarebbe neanche divisa, Mosca comincia a spingere per una soluzione diplomatica definitiva, ovviamente in sede Onu. La terza fase si apre con il colpo di mano all'aeroporto di Priština. La Russia vuole dimostrare con un atto di forza la sua volontà a non cedere di fronte al fait accompli, e per questo cerca un modo per ottenere il controllo su una parte del territorio kosovaro. Ma alla fine le cose non andarono come sperato.

Per concludere possiamo fare alcune considerazioni generali su quali saranno le linee guida della politica estera russa nei Balcani fino al 2008. Alcuni ritengono che la Russia dovrebbe ridimensionare le proprie mire. Con questo non si intende un abbandono totale della questione kosovara e quindi della Serbia. Semplicemente sarebbe auspicabile una revisione dell'approccio generale. Pur ribadendo il fatto che i Balcani sono una delle poche aree in cui la Russia può ancora esercitare un ruolo fondamentale, quest'ultima dovrebbe allentare un po’ sul Kosovo in sé e lavorare di più a livello regionale. E a quanto pare Putin ha messo in atto questa “deglobalizzazione” del tema Kosovo in favore di una concezione del problema a livello regionale. Mosca potrà anche mostrarsi cauta, moderata e selettiva tuttavia senza dimenticare la propria forza e l'importanza di tornare ad avere un ruolo globale.

I rapporti che sembrava aver instaurato con la Nato, prima della guerra in Georgia, andavano interpretati in questo senso, ossia come la volontà di mantenere delle relazioni di basso profilo, quanto basta per accordarsi in generale dove non ci sono grosse frizioni, ma senza mai romperle completamente o in modo irreversibile.


2.3 L'Unione Europea

La politica europea nei Balcani, o meglio la politica dei Paesi europei, è più difficile da collocare nell'ambito di una strategia globale, forse per la sua stessa natura, complessa e unica, e per le forti contraddizioni interne che la caratterizzano. Nella prima metà degli anni '90 la Comunità Europea si trova ad affrontare tre problemi principali: la Guerra del Golfo, la dissoluzione dell'Unione Sovietica, e soprattutto la riunificazione tedesca. Quest'ultimo fattore in particolare era motivo di forti tensioni, poiché i governi europei dovevano a tutti i costi mantenere la Germania riunificata all'interno del progetto integrativo, soprattutto in vista dell'importante svolta che il Trattato di Maastricht avrebbe dato nella politica economica e monetaria della neonata Unione. Dunque l'Europa, in quanto ente sovranazionale, pose meno attenzione a ciò che stava avvenendo in Jugoslavia. Le risposte alle prime dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia vennero singolarmente da ciascuno Stato. Inoltre arrivò la risposta negativa della Commissione Badinter alle richieste di Serbia e Montenegro, che si ritenevano ancora parte della Jugoslavia. Questi chiedevano che, nonostante la secessione di alcune repubbliche, fosse riconosciuta la sopravvivenzza della Federazione jugoslava, che le frontiere amministrative jugoslave non fossero riconosciute come confini internazionali, e che fosse riconosciuto il diritto di autodeterminazione delle comunità etniche all'interno delle repubbliche jugoslave. In piena Conferenza di Pace i giuristi europei risposero negativamente a tutte e tre le richieste andando di fatto a legittimare alcune politiche unilaterali e a esasperare le spinte separatistiche violente. Inoltre già dal luglio del 1991 l'Europa aveva sospeso gli accordi di cooperazione e commercio con la Jugoslavia. Il sostegno veniva garantito solo alle repubbliche secessioniste. Di fatto questa decisione diede adito ai musulmani e ai  croato-bosniaci di operare la secessione e così ai serbi di trovare un pretesto per scatenare la guerra. Un conflitto cui solo l'intervento degli Stai Uniti metterà fine nel 1995. Da questo momento le sorti europee saranno ancora una volta nelle mani del potente alleato che, temendo per una degenerazione che avrebbe coinvolto Macedonia, Albania, Grecia e sopratutto Turchia (importante membro della Nato), entrerà in gioco nei Balcani con un ruolo di primo piano. Nella crisi del Kosovo gli europei non erano divisi riguardo al mantenimento della sovranità jugoslava sulla regione, tuttavia si trovarono divisi sulle condizioni necessarie per arrivare a una soluzione diplomatica, e furono costretti all'intervento armato. Questo non fece che accentuare la condizione di subordinazione all'interno della Nato, andando a minare pericolosamente la fase di lancio dell'euro e le relazioni transatlantiche.

Tuttavia negli anni dell'amministrazione Unmik, con il disimpegno delle forze americane e russe, sono gli europei i maggiori responsabili della stabilità della regione. L'Unione Europea deve essere l'attore principale nei Balcani, passando sia per la cooperazione con la Russia che per l'elaborazione di un progetto geopolitico. Inoltre non è da sottovalutare il potere di attrattiva che l'ingresso nell'Ue può ancora esercitare verso i Balcani Occidentali, rimasti un buco nero nel cuore dell'Europa. Infatti una eventuale procedura di adesione di alcuni di questi Stati, soprattutto dopo il grande allargamento del 2004, potrebbe davvero essere l'unica soluzione per la definitiva stabilizzazione e democratizzazione della regione. Senza citare l'importanza che avrebbe dal punto di vista simbolico una “riunificazione” territoriale di praticamente tutta l'Europa geografica. Con la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, del febbraio 2008, non è da escludersi una rapida integrazione del piccolo Stato, che va ad aggiungersi alla già avviata procedura di adesione della Croazia (2003) e della già inclusa Slovenia. 

Tutto questo a sostegno della tesi che la disomogenetià e la divisione interna dell'Unione Europea hanno portato, e potrebbero portare ancora oggi, a una errata gestione della crisi jugoslava. L'unica strada che deve percorrere l'Europa è quella dell'unità in politica estera e della presa di coscienza che non si può più contare solo sugli altri, cioè sugli Stati Uniti.  Fortunatamente pare che, in questi ultimi anni, la tendenza sia quella di una volontà di revisione e rinnovo delle procedure decisionali, volta a snellire il pesante apparato burocratico. Ciò che renderebbe l'Ue un attore in grado di agire più in fretta e di rispondere prontamente alle sfide che via via le si pongono davanti, anche se il percorso verso una vera innovazione è ancora lungo. L'avvio della PESD nel 2003 e il successo ormai conclamato dell'euro hanno dato nuove speranze a tutti coloro che vedono nel prosieguo del processo in itinere di integrazione europea l'unico modo per poter rendere un pò più sicuro e giusto anche il mondo circostante. Solo unita l'Europa può davvero contare qualcosa e diventare un forte polo di attrazione per altri attori che potrebbero trovare conveniente imitare il suo esempio. Ma soprattutto solo unita l'Europa può aspirare a diventare uno degli attori rilevanti nel sistema multipolare che viene delineandosi in un futuro non molto lontano.


2.4 La crisi dell'Onu

Le Nazioni Unite sono, al tempo stesso, la più grande conquista dell'umanità e il più grande fallimento del progetto di giustizia universale. L'Onu nasce per volontà delle grandi potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, e quindi già di per se limitata e frenata dalle iniziative arbitrarie e unilaterali di pochi Stati. La crisi del Kosovo rappresenta forse il momento più critico nella storia dell'Organizzazione in cui risaltano tutti i suoi limiti e inadeguatezze del ruolo di polizia internazionale, delle procedure decisionali e degli strumenti a disposizione. L'Onu durante la prima fase della crisi in Kosovo è stato emarginato e lasciato nell'ombra dai suoi stessi creatori. Qualcuno ironicamente si chiede se non valga la pena sopprimerlo definitivamente, tanto nessuno se ne accorgerebbe.

Ma al di là di queste opzioni estreme bisogna comunque ammettere che nel caso del Kosovo, e dei conflitti jugoslavi in generale, gli Stati, Usa in primis, hanno scelto l'azione unilaterale a detrimento dell'apparato multilaterale rappresentato dalle istituzioni onusiane. L'idea del Segretario Generale, Boutros Ghali, di rilanciare l'Onu in un ruolo attivo nelle attività di prevenzione, mantenimento e costruzione della pace si scontrava duramente con i progetti della “nuova” America, che, dall'alto dello status acquisito di unica superpotenza, andava riorganizzando la propria egemonia globale. Il Consiglio di sicurezza è stato volutamente privato del suo ruolo decisionale ed esecutivo in quanto garante del diritto fra le Nazioni. L'intervento della Nato è stato condotto senza alcuna autorizzazione e in violazione delle norme di diritto internazionale. Da ciò ne deriva un mandato ambiguo e in contrasto sia con le convenzioni precedenti sia con la situazione presente di fatto sul territorio.

In Kosovo l'Onu ha ripreso un ruolo all'indomani della guerra. Ha sostanzialmente legittimato ex post “l'intervento umanitario” della Nato, ha autorizzato l'occupazione da parte di un contingente internazionale di un territorio legalmente e formalmente sotto l'autorità di uno Stato sovrano, e infine ha provveduto alla creazione di un apparato istituzionale di governo totalmente controllato da funzionari internazionali (non dai locali).


3. Lo status giuridico del Kosovo

Altra cause profonde del fallimento della missione internazionale sono l’ambiguità delle fonti giuridiche che dovrebbero legittimarla e l’iniziale disinteresse dell’Unmik verso quello che era il vero problema, motivo della crisi stessa, ossia lo status del Kosovo. Vediamo il perché.


3.1 L'assetto giuridico

La fine della guerra tra la Nato e la Serbia non ha significato per il Kosovo la così tanto sperata indipendenza. La comunità internazionale, cioè l'Onu, ha deciso volutamente per una fase di transizione che permettesse agli operatori internazionali di costruire nella provincia un sistema politico su basi democratiche e multietniche, e di formare un apparato istituzionale, giuridico e sociale quanto più vicino agli standards internazionalmente riconosciuti, al fine di far passare un pò di tempo nella speranza che le varie passioni nazionalistiche si affievolissero, e si potesse arrivare a un compromesso tra le autorità serbe e la dirigenza albanese kosovara. Dunque la risoluzione 1244 prevede una “sostanziale autonomia all'interno della Repubblica Federale di Jugoslavia” ma con la supervisione di “un'amministrazione internazionale provvisoria che provvederà a un periodo di transizione durante il quale verranno create e implementate istituzioni democratiche provvisorie per un auto-governo che assicureranno condizioni di vita normale e pacifica alla popolazione del Kosovo”. Ma nei fatti che cosa comporta?

Innanzitutto la nozione di autonomia non indica un concetto tecnico o una definizione universalmente riconosciuta dal diritto internazionale, ma una categoria giuridico-politica utilizzata in varie forme per concedere moderate aperture verso le rivendicazioni delle minoranze (etniche, nazionali, linguistiche, religiose) all'interno dei confini di uno Stato. Nel caso del Kosovo, nella risoluzione 1244, il riferimento a tale condizione è chiara: istituzioni che lavorano autonomamente ma che dovrebbero essere subordinate, su alcune questioni principali, al governo di Belgrado. Ma in Kosovo la contraddizione tra teoria e pratica è quanto mai evidente. Belgrado, che rappresenta ancora l'autorità centrale della RFJ (comprendente Serbia, Montenegro e Kosovo), dal 10 giugno 1999 non ha più alcun potere reale sulla provincia. Inoltre quelle istituzioni create per dare potere politico agli albanesi kosovari sono in realtà dominate e controllate dai funzionari internazionali, che esercitano poteri legislativi, esecutivi e giudiziari. Quel personale, che controlla in toto l'apparato di governo locale del Kosovo, non è eletto dalla popolazione, ma nominato dalle Nazioni Unite.

Sostanzialmente il contesto politico-istituzionale in cui si presenta il Kosovo negli anni 1999-2007 è il seguente: de jure uno status di autonomia e auto-governo all'interno della Repubblica Federale di Jugoslavia, ma de facto un protettorato internazionale su una parte di territorio di uno Stato sovrano. Anche se gli esempi di territori internazionalizzati non mancano l'unicità dell'assetto giuridico in Kosovo è indubbia. In questo caso l'amministrazione internazionale si prende tutta la responsabilità nella creazione di istituzioni autonome, senza che tuttavia ci sia una chiara idea su quel futuro status che deve contribuire a costruire. Insomma c'è una contraddizione in termini dei diversi principi enunciati nella risoluzione1244: integrità territoriale della RFJ, auto-governo del Kosovo e amministrazione internazionale. Con l'aggiunta che viene lasciato in sospeso quella che era la vera causa scatenante della crisi. Questa ambiguità comporta una situazione di insoddisfazione e frustrazione per gli albanesi kosovari e di instabilità tra i vicini. Nel 1999 il Kosovo entra in una fase di limbo, dalla quale non si può tornare indietro alla situazione pre-1989, ma in cui al momento non è  neanche considerabile uno scenario futuro di indipendenza della regione.


3.2 Un problema rimasto irrisolto

Lo status giuridico del Kosovo è l'unico vero problema rimasto irrisolto. Il clima di  instabilità e insicurezza, nella provincia e nell'intera regione dei Balcani Occidentali, è riconducibile proprio a questo aspetto. I vicini regionali , nel territorio dei quali ci sono forti minoranze albanesi (sopratutto Macedonia occidentale e Serbia meridionale, più ovviamente l'Albania), vivono in costante apprensione a causa di questa situazione lasciata in sospeso. Per questo motivo a partire dal 2002 l'Unmik passa dall'esclusione assoluta di una prossima indipendenza  a un politica di “standards before status”, con la presentazione a Priština di un documento programmatico che elenca appunto una serie di requisiti essenziali che le istituzioni e la società del Kosovo devono soddisfare prima di poter trattare ufficialmente lo status.

Ma nel marzo del 2004 scoppiarono ancora violenti scontri, che ebbero come epicentro sempre la città di Mitrovica, e che si diffusero in tutta la provincia. Questa volta a far scattare la scintilla fu l'accusa, infondata, secondo la quale dei serbi avrebbero affogato dei bambini albanesi. Il risultato di due giorni di lotta furono otto morti tra i serbi, undici tra gli albanesi, e circa novecento feriti. Insomma questa vera e propria guerriglia non solo mise fortemente in discussione la credibilità della Kfor e dell'Unmik (soprattutto agli occhi serbi), che si dimostrarono disorganizzati e incapaci di sedare la rivolta, ma indusse anche a pensare che si era ancora ben lontani dal raggiungimento di quegli standards. Alla luce di questi avvenimenti il 31 marzo l'Unmik presentò un ulteriore documento (Kosovo Standards Implementation Plan) che esorta appunto all'implementazione dei suddetti requisiti.

Nel frattempo il Segretario Generale dell'Onu, Kofi Annan, incaricò l'ambasciatore permanente della Norvegia presso la Nato, Kai Eide, di redigere un rapporto generale sulla situazione in Kosovo. Il diplomatico norvegese in particolare arrivò alla conclusione che “la pressione in Kosovo riguardo alla questione del futuro status si fa sempre più intensa” e che dunque è finito il tempo per indugiare ulteriormente. La società kosovara chiedeva risposte concrete. Il documento indicava come termine per l'inizio delle discussioni la metà del 2005. E infatti l'Inviato Speciale Kai Eide, in un successivo rapporto del 7 ottobre 2005, ribadisce la necessità di passare alla fase successiva del processo politico in Kosovo. Dunque con l'approvazione del Consiglio di Sicurezza Kofi Annan nominò l'ex presidente finlandese, Martti Ahtisaari, Inviato Speciale per il processo del futuro status del Kosovo.

In aggiunta il Gruppo di Contatto redasse il documento Ten Guiding principles, volto appunto a supportare il lavoro di Ahtisaari. Nel documento sono elencati una serie di princìpi che caratterizzano i valori comuni su cui si fondano le stesse istituzioni occidentali (tra cui i criteri di Copenhagen dell'Ue). L'ufficio di Ahtisaari, l'Unosek (United Nations Office of the Special Envoy in Kosovo), cominciò a lavorare ufficialmente nel febbraio del 2006, impegnandosi come mediatore in una serie di round negoziali tra Belgrado e Priština. Tuttavia ritardò volutamente la presentazione di una proposta finale, per permettere che le elezioni in Serbia del 21 gennaio 2007 si svolgessero in un clima quanto più sereno possibile. Il 2 febbraio 2007 Ahtisaari presentò il suo Comprehensive Proposal for the Kosovo Status Settlement sia a Priština che a Belgrado. Ma dopo un mese di intense trattative Ahtisaari dichiarò chiusi i negoziati e con ciò l'inutilità di ulteriori sforzi in questo senso.  Nel suo rapporto del 26 marzo al Segretario Generale Ban Ki-Moon, il quale a sua volta sottopone la questione al Consiglio di Sicurezza, afferma chiaramente che una soluzione definitiva per il futuro status della regione è assolutamente necessaria, e un'indipendenza condizionata, supervisionata dalla comunità internazionale, rappresenta l'unica opzione reale. Ma il Consiglio non pervenne a nessun accordo per una risoluzione definitiva sulla questione che approvasse in via ufficiale il Piano Ahtisaari. A questo punto la situazione venne prese in mano da una “Troika” di mediatori composta da Unione Europea, Stati Uniti e Russia. Ma il 10 dicembre 2007 le parti non erano ancora pervenute a nessun accordo sullo status. L'Ue quindi decise per l'avvio di un processo di “supervised independence” basato sul Piano Ahtisaari, secondo il quale ci sarebbe stato un periodo di transizione di 120 giorni che sarebbero serviti per ottenere quanti più riconoscimenti possibili dalla comunità internazionale, ma anche per permettere l'implementazione delle direttive date dal Piano. Dunque si prevedeva per aprile o maggio la dichiarazione di indipendenza condizionata, sotto la supervisione dell'Unione Europea e della Nato.

La dichiarazione unilaterale d’indipendenza del 17 febbraio 2008 di fatto vanifica tutti questi sforzi, segnando il fallimento della missione e del progetto internazionale. Dopo nove anni la questione del Kosovo è ancora motivo di tensione tra gli attori internazionali e di instabilità a livello regionale.

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