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III. Prospettive future

Nel febbraio del 2008 si apre una terza fase della vicenda kosovara. La dichiarazione unilaterale d’indipendenza segna il definitivo fallimento della missione internazionale. L’Onu prima, e il Gruppo di Contatto poi, non sono riusciti a mediare un accordo tra Belgrado e Priština. È nato così un nuovo Stato sulla carta. Ora il problema, per i kosovari e per l’Ue, è di renderlo tale anche di fatto. Ma sin dai primi mesi il nuovo governo deve affrontare una serie di problemi, interni ed esterni. Alcuni di essi sono gli stessi che hanno ostacolato il buon esito della missione dell’Onu, altri, come il riconoscimento e le reazioni di Serbia e Russia, sono la prevedibile conseguenza di una decisione unilaterale presa in violazione delle norme giuridiche internazionali. In questa terza parte verranno analizzate tutte queste problematiche,e alla fine si cercherà di fare un previsione sul possibile evolversi della vicenda nel breve periodo.


1. L'indipendenza


1.1 La svolta di febbraio

Alle ore 15.39 di domenica 17 febbraio 2008 Hashim Thaçi, capo del governo kosovaro, ed ex leader politico dell'Uçk, proclama in parlamento la nascita dello “stato sovrano e indipendente del Kosovo”, accettando pienamente “gli obblighi contenuti nel Piano Ahtisaari”. Quest'ultimo, oltre a ribadire la validità giuridica della risoluzione 1244, e quindi il riconoscimento dell'integrità territoriale e la sovranità della Repubblica Federale di Jugoslavia, fa riferimento anche all'Atto di Helsinki, che stabilisce l'immutabilità dei confini interstatali europei, che non possono essere modificati per mezzo della forza ma solo tramite uno specifico accordo tra le parti interessate. La formula della dichiarazione è ovviamente ambigua. In pratica il Kosovo è uno Stato indipendente, ma, come previsto dal Piano Ahtisaari, un soggetto a sovranità limitata, che fonda la propria costituzione su atti giuridici che ancora prevedono la sovranità della FRJ, ormai inesistente, sulla provincia. Non solo, sempre nella suddetta dichiarazione viene ulteriormente legittimata la presenza di forze straniere in territorio kosovaro, ossia della Nato con la Kfor e dell'Unione Europea con la nuova missione sullo Stato di diritto (Eulex) . Insomma, come giustamente fa notare Lucio Caracciolo, dal 17 febbraio 2008 ci sono tre Kosovo. Il primo è immaginario, cioè la provincia serba cui si riferisce la risoluzione 1244. Il secondo, effettivo, è rappresentato dalla enclave serba a nord del fiume Ibar, e dalle zone a maggioranza serba sparse qua e là sul territorio. Il terzo, altrettanto reale, è quel Kosova, come lo chiamano gli albanesi, che di fatto è un secondo Stato albanese che aspetta ancora di sapere quale sarà il suo destino.

Inoltre la scelta dei simboli del nuovo Stato, come la bandiera, sono oggetto di critiche. Infatti i maggiori promotori dell’indipendenza, cioè gli Stati Uniti, hanno spinto per far apparire il Kosovo come una realtà multietnica. Cosa che nei fatti non è. 

Comunque i veri problemi sono ben altri. La Repubblica del Kosovo, infatti, ha ora come obiettivi primari, dopo l'indipendenza, il raggiungimento di uno status di piena ed effettiva sovranità e l'inserimento nei più importanti fora internazionali (ossia il riconoscimento da parte della comunità internazionale).


1.2 Il problema del riconoscimento: paralleli balcanici

Il primo vero ostacolo che Priština deve affrontare è il riconoscimento internazionale.

Ad oggi, si può fare una distinzione tra quei Paesi che hanno provveduto al riconoscimento immediato (per un periodo compreso all'incirca entro i trenta giorni), quelli che hanno aspettato e si sono aggiunti nel corso dei mesi successivi, quelli che assolutamente si oppongono al riconoscimento, e quelli che attendono ulteriori sviluppi perché non hanno interessi diretti nella regione o aspettano una stabilizzazione della situazione. Il primo Stato in assoluto a riconoscere il Kosovo è stato il Costa Rica, lo stesso 17 febbraio. Il 18 seguono gli Stati Uniti, come primo paese europeo la Francia, come primo paese musulmano l'Afghanistan. Seguiti, sempre il 18, da Turchia, Albania e Taiwan. Nei giorni seguenti si sono aggiunti gran parte dei paesi dell'Ue, tra cui Italia,Germania e Regno Unito. Altri come Repubblica Ceca, Bulgaria, Portogallo e Malta hanno temporeggiato, ma alla fine hanno provveduto anch'essi al riconoscimento. Invece tra i Paesi limitrofi alcuni, come Montenegro e Macedonia, hanno ritardato molto il riconoscimento ufficiale. C'è poi una serie di Stati che, per necessità o volontà politica, si rifiutano a priori di riconoscere l’indipendenza del Kosovo. Tra questi figurano la Serbia (ovviamente) e la Russia in primis, e la Cina. Ma anche alcuni membri dell'Ue, come Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia e Romania, sono ancora schierati nel fronte dei contrari. Una situazione che ha creato non pochi problemi interni all'Unione e, ancora una volta, ha minato alla sua credibilità ed efficacia in politica estera.

Inoltre la svolta di febbraio ha riportato l’attenzione su un elemento ricorrente nella crisi, ossia l'argomento del pericoloso precedente, in contrasto ai fermi sostenitori del Kosovo come “caso sui generis, cioè dell'unicità della situazione kosovara. In effetti quei paesi che sono contrari (la Serbia è un caso a sè) sono accomunati dal fatto che all'interno del loro territorio nazionale ci sono delle forti minoranze etniche che potrebbero creare instabilità, o addirittura vere e proprie spinte separatiste. La Spagna ad esempio deve fare i conti con  i secessionisti baschi dell'Eta e in minor misura con i catalani. La Romania è preoccupata sia a livello interno, per la forte minoranza ungherese presente sul suo territorio, che a livello esterno, per la salvaguardia dell'integrità territoriale di quello che considerano il secondo Stato romeno, cioè la Moldavia. La Slovacchia anch'essa teme le possibili rivendicazioni della minoranza ungherese. La Grecia, invece, teme, da una parte la destabilizzazione della confinante Macedonia (dove circa un quarto della popolazione è di etnia albanese e con la quale ha ancora aperto un contenzioso per via del nome scelto da Skopje), dall'altra la “taiwanizzazione” di Cipro, ancora divisa dopo trent'anni e motivo di tensioni costanti con la Turchia. La Cina, è da sempre presa con la questione del Tibet e di Taiwan. Infine c'è la Russia che, oltre all'evidente scelta politica di stare al fianco di Belgrado (che gli permette di mantenere una appoggio influente nei Balcani) e la storica solidarietà pan-slavista, ha anch'essa delle questioni di rivendicazione territoriale rimaste in sospeso: la Cecenia prima fra tutte, ma anche il Tatarstan, la Kalmucchia e il Daghestan.

Insomma a quasi un anno dalla dichiarazione d'indipendenza, il Kosovo è stato ufficialmente riconosciuto da 53 Stati membri delle nazioni unite, più Taiwan.

Tuttavia, a livello giuridico, la procedura di riconoscimento di per sé non determina la soggettività internazionale di uno Stato. La mancanza di piena sovranità del governo kosovaro è il nodo centrale della questione. Questa situazione deriva dalle stesse cause che hanno determinato il fallimento della missione internazionale, ossia le contraddittorie fonti giuridiche e l’ambiguità dello status territoriale (dovute alle dispute tra gli attori principali).


1.3 Sovranità de jure ma dipendenza de facto

Con la dichiarazione di indipendenza, come detto, il governo kosovaro accoglie pienamente il Piano Ahtisaari e allo stesso tempo ribadisce la validità giuridica della risoluzione 1244. Tale documento legittima una missione di amministrazione internazionale provvisoria nel Kosovo. Tuttavia afferma anche la difesa dell'integrità territoriale e della sovranità della Repubblica Federale di Jugoslavia su quel territorio, che quindi è formalmente e legalmente ancora una provincia della RFJ. Inoltre, nella stessa risoluzione si fa riferimento all'Atto Finale di Helsinki del 1975 stipulato in occasione della Conferenza sulla sicurezza e cooperazione in Europa. In tale convenzione viene sancita l'inviolabilità delle frontiere e il divieto dell'uso della forza, con la possibilità di modificare i confini solo tramite un accordo tra gli Stati interessati. Infine, il Parlamento kosovaro accetta il Piano Ahtisaari. Tuttavia il problema è che tale documento è contraddittorio rispetto ai due precedenti. Infatti si parla sia di un periodo di transizione di 120 giorni che serviranno al governo per implementare una serie di riforme istituzionali, tra cui l'adozione di una nuova Costituzione, e permetteranno il passaggio di mano dei poteri dall'Unmik ai rappresentanti kosovari, sia il perdurare della validità della risoluzione 1244. In pratica il Piano Ahtisaari viene implementato senza che ci sia stato alcun accordo tra le parti interessate (cioè Serbia e Kosovo), come previsto dall'Atto di Helsinki, e in contraddizione con la risoluzione 1244 che riconosce la sovranità della RFJ sul Kosovo. Ma esiste anche una contraddizione tra forma e sostanza. Di fatto il Kosovo è uno stato indipendente ma non pienamente sovrano, come detto nello stesso Piano Ahtisaari. Possiamo quinidi dire che il Kosovo è sovrano de jure ma dipendente de facto.

Ma oltre alle contraddizioni tra fonti giuridiche su cui si fonda la nascita del  Kosovo permane anche l’aspetto della reale autorità del governo nazionale. Come detto l'atto del riconoscimento non è costitutivo della personalità giuridica di uno Stato. Al contrario tale soggettività internazionale è determinata da un principio di effettività, ossia dal fatto che il suddetto ente disponga di un apparato centralizzato che esercita un controllo effettivo su un determinato territorio e sulle genti che in esso vivono, le quali non debbono obbedienza ad altra autorità esterna. Ciò non è altro che il concetto di sovranità: uno Stato, per essere tale, deve avere supremazia all'interno e indipendenza dall'esterno. Ora, il Kosovo è pienamente sovrano? Esercita un effettivo controllo su un territorio e sulle genti che vi abitano? Insomma, il Kosovo è uno Stato? Alla luce delle considerazioni appena fatte la risposta dovrebbe essere negativa. Tuttavia, contrariamente a chi sostiene che il Kosovo sia un caso di riconoscimento prematuro, esso è in realtà una presa d'atto dell'esistenza di una situazione di fatto. Così come è evidente la contraddittorietà dei documenti giuridici analizzati, allo stesso modo non si può negare che ormai da molti anni (anche prima del 1999) il Kosovo non fosse più una provincia jugoslava. In questo caso è ragionevole richiamarsi al diritto consuetudinario, altra fonte primaria altrettanto valida al pari di qualsiasi trattato. Ossia nel momento in cui viene a crearsi una situazione di fatto, come la nascita di un'entità distinta all'interno dei confini di uno Stato, il diritto non è né favorevole né contrario, semplicemente ne prende atto.

Dunque il Kosovo è un’entità di fatto non pienamente sovrana, ma che tuttavia non fa più parte da anni della RFJ. La stessa ambiguità è riscontrabile laddove si voglia definire il caso kosovaro in quanto smembramento o secessione. Ebbene a seconda di come lo si inserisca in un più ampio quadro storico ne scaturiscono due interpretazioni differenti. Se lo si vede come effetto della violenta dissoluzione della ex Jugoslavia si parla di smembramento. Se lo si guarda in un'ottica più ristretta si può parlare di secessione, cioè il distaccamento di una parte di territorio della Serbia.

Alla luce di tutti gli aspetti politici e giuridici della crisi finora analizzati non si può negare che il caso kosovaro sia effettivamente unico nel suo genere (dal conflitto etnico alla guerra tra Nato e Serbia, dal protettorato internazionale all’indipendenza guidata). Tuttavia i maggiori promotori di questa idea di unicità, cioè Ue e Stati Uniti, sbagliano se pensano di poter prevenire altre rivendicazioni territoriali rifugiandosi dietro alla retorica. Infatti le interpretazioni del caso kosovaro da parte degli attori sono contrastanti, anche perché sono legate a interessi di tipo politico nella regione. Vediamo dunque in che modo gli attori coinvolti hanno reagito alla svolta di febbraio, la loro capacità di influire sulle sorti della vicenda e soprattutto  le ripercussioni che le loro politiche hanno sulla stabilità della regione.


2. Risposte regionali e attori internazionali

Come nelle prime due fasi della crisi, l’approccio dei grandi attori internazionali può influire in modo significativo sul futuro del Kosovo e della regione. Quindi se Stati Uniti, Russia e soprattutto Unione Europea possono determinare un evolversi positivo o negativo della situazione,  allo stesso tempo i Paesi limitrofi devono cercare di riorientare le proprie strategie  prendendo atto del nuovo assetto regionale e cercare soluzioni  a lungo termine in un’ottica di crescita e cooperazione regionale. Questo vale soprattutto per la Serbia.


2.1 La strategia serba di destabilizzazione

La dichiarazione del 17 febbraio non è stata priva di conseguenze. Già lo stesso giorno un gruppo di serbi kosovari, sostenuto da Belgrado, è stato protagonista di alcuni scontri di frontiera nella zona a nord di Mitrovica (cioè l'enclave serba), obbligando i soldati della Kfor a blindare temporaneamente l'area di accesso diretto alla Serbia. Tuttavia gli eventi che si sono verificati a Belgrado il 21 febbraio hanno avuto sicuramente una maggior rilevanza mediatica. In quell'occasione è scoppiata una vera e propria guerriglia urbana, con l'assalto da parte di alcuni manifestanti all'ambasciata americana, data alle fiamme. Il risultato degli scontri sono 130 feriti e un morto. Inoltre nelle settimane successive ex funzionari serbi delle corti regionali hanno picchettato la sede di Mitrovica riuscendo ad occuparla il 14 marzo. Gli agenti della Kfor, tentando di far desistere i manifestanti pacifici sono stati oggetto di lanci di pietre, granate e bombe molotov da parte di bande non ben identificate. La sparatoria che ne è scaturita ha causato circa 100 feriti tra gli internazionali, 80 tra i serbi e la morte di un poliziotto ucraino dell'Unmik. Questi fatti segnalano il forte effetto destabilizzante per la Serbia e per i territori del Kosovo che di fatto sono delle enclavi serbe.

Ma una delle conseguenze di maggior significato della dichiarazione di indipendenza del Kosovo è avvenuta sul sistema politico serbo. In particolare sono tre gli elementi di divisione interna: la scelta tra una linea morbida o intransigente riguardo alle possibili reazioni, il grado di armonizzazione con le volontà di Mosca, e il rapporto con l'Unione Europea. È soprattutto il futuro delle relazioni con Bruxelles a creare frizioni nella coalizione di governo. Il Dss, partito conservatore del premier Koštunica, ha fatto approvare in parlamento una risoluzione che subordina il processo di integrazione in Europa al riconoscimento da parte dell'Ue che il Kosovo è Serbia. Questo ha causato una spaccatura con il partito filoccidentale riformista del presidente Tadić. La decisione di Kostunica di sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni per l'11 maggio ha causato una crisi di governo. Dalle votazioni esce vincitore il filoccidentale Tadić, leader della Lista per la Serbia europea, per il sollievo dell’Ue. Egli ha infatti annunciato che il primo obiettivo della Serbia sarà l'ottenimento dello status di candidato per l'ingresso nell'Unione entro metà 2009 e entro quattro anni l'integrazione piena. Tuttavia lo stesso Presidente non è meno deciso a insistere sull'integrità territoriale serba e sulla sovranità sul Kosovo. La Serbia vuol far capire che non mollerà facilmente sul Kosovo, anche a costo di rallentare l'avvicinamento all'Europa.

Dunque vediamo quali sono gli obiettivi a medio e lungo termine e le strategie messe in atto da Belgrado. Primo, bloccare o rendere difficile il riconoscimento internazionale del Kosovo. In questo senso va interpretato il voto del parlamento, il 18 febbraio, per una risoluzione che dichiara nulla la proclamazione unilaterale d'indipendenza, l'irrigidimento dei rapporti con l'Ue e il boicottaggio della missione Eulex. Secondo, Belgrado incentiva e sostiene la formazione e il funzionamento di istituzioni parallele nella comunità serba del Kosovo. Lo scopo è quello di legalizzare e “istituzionalizzare” la divisione etnica della regione, spingendo appunto sulla già esistente frammentazione e sulla mancanza di una decisa strategia da parte dell'Unmik e delle istituzioni kosovare  per l'integrazione dei serbi. Se questa linea strategica risultasse vincente potrebbe portare a nuovi negoziati per lo status del Kosovo o addirittura per una possibile spartizione del territorio su base etnica. Tuttavia non mancano i problemi. Primo fra tutti la divisione interna alla coalizione di governo, che ha costretto Kostunica alle dimissioni. Secondo l'incongruenza dei comportamenti degli stessi serbi del Kosovo, alcuni disposti a collaborare con l'Ue e l'Unmik, altri assolutamente contrari. Terzo, le proteste violente e aggressive dei serbi di Mitrovica nord spaventano anche le altre comunità a sud del fiume Ibar, che dubitano sempre più dell’affidabilità di Belgrado.

Ma vediamo in che modo la Serbia tenta di perseguire tali obiettivi. La strategia principale è quella della destabilizzazione. Concretamente significa compiere azioni di infiltrazione e sabotaggio, per andare a colpire i punti sensibili sul territorio – infrastrutture, centrali elettriche – per minare alla base la credibilità delle autorità della nuova Repubblica. Le azioni così pilotate, magari attuati in concomitanza a scontri di frontiera per disperdere l'attenzione dai veri bersagli, creerebbero scompiglio e produrrebbero un immagine del disagio e dello scontento del popolo serbo. Ma perché la strategia abbia successo è necessario che Belgrado prenda alcune cautele. Primo, la responsabilità di tali azioni deve poter essere imputabile a dei singoli cittadini, simbolo del malcontento del popolo serbo, e dunque non riconducibili a Belgrado. Secondo, la scelta degli obiettivi deve essere molto attenta, cercando di non danneggiare infrastrutture utili anche ai serbi. Terzo, organizzare minuziosamente l'entroterra di Mitrovica nord come base di preparazione e di infiltrazione, utile anche in caso di fuga. Inoltre questa città dovrebbe fungere ancora una volta da focolaio per la sollevazione di nuove proteste popolari che costringerebbero la Kfor a intervenire. Così Belgrado avrebbe il pretesto di mobilitarsi in difesa della minoranza serba.

Insomma la strategia serba di destabilizzazione è fondata sulla provocazione, ossia nel tentativo di fare perno sul disagio della popolazione kosovara. A ben vedere, questa tattica non è lontana dal rivelarsi vincente. Tuttavia difficilmente si tornerà sulla questione dello status dato che altri attori rilevanti, come l'Unione Europea, si sono ormai legati indissolubilmente al destino del piccolo Stato balcanico, questa volta decisi a lasciare un segno indelebile nella società e nelle istituzioni kosovare.


2.2 Gli attori locali e l'instabilità degli assetti balcanici

La dichiarazione di indipendenza del Kosovo è stata accolta dai vicini regionali in diversi modi, in alcuni casi prevedibili, in altri comprensibili.

Albania. A Tirana è stata festa grande per un giorno intero, quasi fosse una vittoria di tutti gli albanesi. Bandiere e striscioni esposti ovunque, sia su edifici pubblici che in case private. Manifestazioni, raduni e cortei a riempire le strade e le piazze. Da parte dell'élite politica invece c'è stata una reazione volutamente contenuta, per cercare di non dare adito a troppe preoccupazioni. Per quanto riguarda il riconoscimento, il presidente Topi aveva già fatto sapere che non sarebbe stato il primo a darlo. Solo il 19, dopo che avevano provveduto Stati Uniti e Gran Bretagna, arriva l'annuncio ufficiale del premier Berisha: “la Repubblica d'Albania considera la nascita dello Stato del Kosovo come un evento storico”. Questa è legata al fatto che il sogno panalbanese, tornato in auge nel 1999, ormai appartiene al passato.  Tirana si è persuasa della necessità di puntare verso altri orizzonti, che permettano il raggiungimento di stabilità e sviluppo regionale, al momento molto più importante di vaghi sogni romantici. Insomma, per dirla con Rakipi, il Piemonte albanese è Bruxelles.

Macedonia. Nelle più grandi città macedoni a maggioranza albanese la dichiarazione di indipendenza è stata festeggiata con celebrazioni e manifestazioni organizzate dagli stessi politici locali. Tuttavia ufficialmente il governo moderato di Gruevski ha assunto una linea cauta, per non allarmare troppo gli slavo-macedoni. Per questo Menduh Thaçi, il capo del partito albanese Dpa, alleato di minoranza del governo di centro-destra, ha consigliato di contenere l'euforia. Tuttavia pochi mesi dopo Thaçi annuncia il ritiro del suo partito dal governo per protestare contro le incertezze di Skopje nel riconoscimento del Kosovo. Il perché di questo temporeggiamento si fonda su diversi fattori. Primo, in Macedonia vive una cospicua minoranza albanese, circa il 30% della popolazione, che abita per lo più la zona settentrionale del paese al confine con il Kosovo. Secondo, la questione della delimitazione dei confini con il Kosovo è ancora irrisolta. Questo ha creato non pochi problemi, l'ultimo manifestatosi nel 2001 con gli scontri tra esercito macedone e guerriglia albanese. Terzo, le eventuali ritorsioni da parte di Belgrado per via del riconoscimento colpirebbero duramente l'economia macedone. Perciò la Macedonia sin da subito ha approvato il Piano Ahtisaari, lasciando tuttavia intendere che la sua decisone sarebbe stata concordata con Stati Uniti e Ue.

Montenegro. Podgorica ha esortato gli albanesi a non organizzare manifestazioni pubbliche cercando di limitare i festeggiamenti a un livello privato. Le forti preoccupazioni del governo montenegrino derivano dal fatto che circa l'8% della popolazione è albanese, ma che il 32% è serba e dunque ancora molto legata a Belgrado, che nel 2006 aveva acconsentito al distaccamento pacifico della piccola Repubblica jugoslava. Inoltre sulla questione del riconoscimento influiscono anche tre fattori esterni: la pressione degli Stati Uniti, maggiori promotori dell'indipendenza kosovara, così come lo erano stati del Montenegro; le influenze economiche da Mosca che ha ancora importanti leve di condizionamento; e naturalmente i legami con Belgrado che punta all’isolamento del Kosovo. Sia Montenegro che Macedonia hanno provveduto al riconoscimento formale del Kosovo solo il 9 ottobre del 2008.

Bosnia-Erzegovina. Il caso bosniaco è un po' l'inverso di quello macedone e montenegrino. I problemi per il governo di Sarajevo si chiamano Repubblica Srpska. In Bosnia infatti la minoranza serba rappresenta il 37% della popolazione, e costituisce un vero e proprio Stato nello Stato. Il premier serbo-bosniaco Dodik ha minacciato un referendum per la secessione in caso di riconoscimento del Kosovo. Finora Sarajevo si è ben guardato dal correre tale rischio.

Croazia e Slovenia. In entrambi i casi la preoccupazione per le ritorsioni di Belgrado sono state superate dai più importanti obiettivi europeisti. Nel primo caso coerentemente con linea ormai affermata dell'adesione all'Ue. Nel secondo la scelta è stata dettata da motivi di responsabilità in ambito europeo, a causa del semestre di presidenza nell'Unione Europea. Dunque alla fine sia Zagabria che Lubiana hanno deciso per il riconoscimento del Kosovo.

In generale le reazioni di questi Stati all'indipendenza del Kosovo sono accomunate dall'aspettativa che tutti hanno riposto negli effetti positivi, a livello regionale, che un sempre maggiore avvicinamento all’Ue potrebbe portare. Macedonia, Montenegro, Croazia, Bosnia e Kosovo (ma anche Serbia) sono sempre più persuasi che l'opzione Europa rappresenti davvero una svolta epocale per tutta la regione balcanica.


2.3 Attori internazionali: Usa, Russia, Ue

Stati Uniti.  La disgregazione della Jugoslavia, che inizia nei primi anni '90 e finisce (forse) nel 2008 con la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, coincide con una più ampia trasformazione che stava avvenendo a livello globale. Il crollo dell'Unione Sovietica infatti fa spostare l'ago della bilancia evidentemente in favore degli Stati Uniti, che rimangono l'unica superpotenza in grado di proiettare la loro forza ovunque nel mondo. Ma nel corso dei decenni di bipolarismo, gli Stati Uniti avevano costruito la propria potenza non solo in campo militare ma anche, e soprattutto, in campo economico e politico, plasmando così un mondo imperniato sui dollari americani e che guardasse all'America come punto di riferimento. Verso la fine del secolo però questo potere di influenza, definito da Joseph Nye soft power, stava comunque venendo meno, e con ciò la credibilità americana, elemento fondamentale per il mantenimento dell'egemonia. Ed è qui che si inserisce l'intervento nei Balcani, e in Kosovo in particolare. Ha ragione Terzuolo nel sostenere che non c'è una strategia americana per colpire la Serbia in particolare, tuttavia Belgrado entra per forza di cose nel mirino americano. Ciò che ha spinto Clinton a intervenire è proprio la politica di Milošević verso gli albanesi del Kosovo. Sembra non razionale, nel senso realista del termine, ma una delle reali motivazioni dell'attacco della Nato è davvero l'intervento umanitario, per salvare delle vite umane. Poiché questo rientrava in una strategia di riaffermazione della propria credibilità e del proprio ruolo da poliziotto pacificatore del mondo. Ad alimentare questa “dottrina” c'erano i recenti insegnamenti della Bosnia. Ovviamente ciò che è più evidente oggi è l’aperto sostegno americano all'indipendenza del Kosovo. Tuttavia tale svolta unilaterale non era nei piani statunitensi sin dagli anni '90, ma è solo la conseguenza, forse prevedibile (almeno dal 1999), ma di certo non premeditata, di un certo tipo di politica che Washington ha adottato nei Balcani. L'amministrazione Clinton portò a sostegno del proprio coinvolgimento nella crisi kosovara il principio dell'autodeterminazione dei popoli su base etnica. Ma se sloveni, croati, macedoni, musulmani bosniaci e albanesi avevano il diritto di separarsi dalla Jugoslavia, ai serbi non era consentito di staccarsi allo stesso modo da Bosnia o Croazia. I principi umanitari erano applicabili per tutti tranne che per i serbi, che sono tuttora visti come il nemico assoluto nei Balcani. Come spesso accade nell'élite politica americana la realtà viene stravolta dall'ideologia, talvolta in modo strumentale ma talvolta in modo  “ingenuo” e arrogante. Così facendo la leadership americana  si preclude dal raggiungimento di compromessi che secondo alcuni potrebbero davvero rappresentare una soluzione per la stabilità del Kosovo, e della regione tutta, cioè una possibile spartizione, con un ritorno di tutta la parte settentrionale (l'enclave serba di Mitrovica) sotto l'autorità di Belgrado. Inoltre l'attacco della Nato aveva dato il via a un processo di secessione che non era più possibile fermare. Infatti sebbene formalmente la risoluzione 1244 stabilisse il mantenimento dell'integrità territoriale jugoslava e dunque la sovranità serba sul Kosovo, nei fatti era nato un nuovo assetto che diede il via a un processo irreversibile. Nonostante sia l'Onu che gli Stati Uniti, nel 1999, affermassero che l'indipendenza non era un'idea neanche contemplabile, lasciavano intendere che una revisione dello status finale era solo rinviato a data da destinarsi. Gli Stati Uniti fanno bene a lasciare il Kosovo agli europei, ma non hanno altrettanto ragione nell'escludere a priori un possibile futuro accordo per una ripartizione del territorio laddove questo potrebbe contribuire realmente alla stabilità regionale, ciechi di fronte all'evidenza che il Kosovo, oggi, è uno stato multietnico solo perché la maggioranza albanese non è in grado di scacciare l'intera minoranza serba. 

Russia. La reazione russa alla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo non poteva che essere negativa. L'approccio verso i Balcani da parte del colosso euro-asiatico in realtà è sempre stato abbastanza coerente nel tempo. Quando è scoppiata la crisi, all'inizio degli anni '90, l'ex Urss si è limitata ad agire conformemente al proprio ridotto potere, presa com'era dal cercare continuo consenso dall'Occidente. Dunque non poteva, e non voleva, permettersi di fare più che la voce grossa in seno al Consiglio di Sicurezza. Ma con l'inizio dell'era Putin, e forte di una riacquisita potenza, la Russia ritorna ad avere una significativa leva politica ed economica nella regione, soprattutto dal punto di vista energetico. La politica russa nei Balcani, e in Kosovo in particolare, sono da interpretare alla luce di tre fattori. Primo, contrariamente a come vorrebbero a Washington o a Bruxelles, e nelle varie cancellerie europee, il Kosovo non è un caso sui generis, bensì un pericoloso precedente. Mosca ne approfitta per ergersi a difensore del diritto internazionale, richiamandosi a uno dei princìpi fondamentali del diritto tra Stati, ossia quello della non-ingerenza negli affari interni, ovviamente tutelando essa stessa da possibili spinte secessioniste nel suo territorio. Secondo, i rapporti con la Nato e la forte opposizione al suo allargamento. La crisi di agosto in Georgia è una chiara dimostrazione di forza con cui Mosca vuol dimostrare che non è disposta ad accettare un'istallazione di basi Nato troppo vicino ai suoi confini (timori legati alla prospettiva di ingresso della Georgia nell'Alleanza). Allo stesso modo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, dove la gran parte delle forze di sicurezza sono composte da contingenti euroatlantici, è percepito come un ulteriore smacco e un'umiliazione, soprattutto nell'idea di riacquisizione di uno status globale. Terzo, e più importante, nei Balcani Mosca gioca un'importante partita energetica, che passa soprattutto dalla Serbia. In questo senso la svolta di febbraio va a favore della Russia. La rinnovata solidarietà con i fratelli slavi ha portato ad accordi molto convenienti. Inoltre il progetto South Strema, che permetterebbe di creare una linea di pipelines che collegano Mar Caspio, Mar Nero e Mediterraneo, sarebbe un'ottima linea per bypassare il corridoio Paneuropeo che dovrebbe rifornire tutta l'area balcanica fino al Nord Italia.

Insomma la Russia ha fatto bene i suoi calcoli. La posta in gioco è ben più alta di un piccolo angolo di territorio nei Balcani Occidentali. Si tratta di una riprendere un suo ruolo chiave in Europa, questa volta attraverso la politica energetica. Per ora Mosca ottiene la Serbia e una crescente influenza in tutta la regione, inoltre il precedente kosovaro gli ha permesso di agire allo stesso modo con le Repubbliche secessioniste nel Caucaso, andando a difendere direttamente i propri interessi. Così l'indipendenza del Kosovo si rivela un'arma a doppio taglio per i suoi maggiori sostenitori.

Unione Europea. L'approccio europeo durante tutta la crisi del Kosovo fa emergere almeno due questioni, ognuna ad un diverso livello di analisi ma tra loro collegate. Primo, dal punto di vista interno l'Europa non si smentisce mai. Così come nel 1991 ci fu una spaccatura per il riconoscimento di Croazia e Slovenia, che minacciò seriamente il buon esito dei negoziati di Maastricht, nel 2008 la storia si ripete. L'Ue si trova ancora una volta divisa da interessi nazionali contrastanti, che portano a un riconoscimento scoordinato del Kosovo. Secondo, dal punto di vista esterno ne risulta una politica estera europea fortemente limitata e inefficace, almeno fino ad ora. Negli anni '90 l'arroccamento su interessi nazionali e litigi interni ha causato quello che è evidente a tutti, ossia la totale inanità dell'Europa verso una grave crisi nel cortile di casa. L'incapacità dell’Ue di gestire un problema europeo ha causato ancora una volta la dipendenza dagli Stati Uniti, i quali hanno poi trascinato l'Europa in una guerra che lasciava, e lascia ancora oggi, molti dubbi sui modi e i fini per cui veniva intrapresa. Ancora una volta l'Europa è stata solo uno strumento per gli alleati d'oltreoceano, permettendogli di ribadire il loro dominio. L'errore europeo non è stato tanto nell'intervento in sé degli Stati Uniti, che tra l'altro lo hanno fatto tramite la Nato, quanto nel modo in cui si è arrivati a questo, cioè senza che l'Europa facesse niente, senza che, oltre ad affidarsi sempre con spirito sottomesso all'Alleanza Atlantica e sperare in un salvataggio dell'America, si sforzasse davvero di creare una forza indipendente di crisis management, quanto meno per risolvere un problema in casa propria. Sempre per questo motivo i governi europei hanno dovuto nascondersi dietro a dichiarazioni che sostenevano l'unicità del caso Kosovo, come se ciò costituisse un reale deterrente per altri movimenti indipendentisti sparsi per il mondo.

Alla fine l'Unione Europea, in quanto organizzazione internazionale, non ha riconosciuto ufficialmente il Kosovo, e nel summit del Consiglio Europeo del 18 febbraio viene stilato un documento che si limita a ricordare che “il Parlamento del Kosovo ha adottato una risoluzione che dichiara il Kosovo indipendente”. Tuttavia, in questa terza fase della vicenda kosovara, l'Europa passa ad un ruolo di primo piano con il lancio della missione Eulex, nel tentativo di imprimere finalmente una svolta democratica alle istituzioni e alla società kosovare. Eulex prevede l'invio di circa 2 mila uomini tra funzionari di polizia e magistrati, e con esso il graduale passaggio di mano dei poteri dall'Unmik ai funzionari Ue.

Altra nota dolente nella gestione della politica europea verso i Balcani sono i rapporti con la Serbia. Un passo molto importante sarebbe stata la firma di un importante Accordo di associazione e stabilizzazione (Asa). Ma l'intransigenza di Olanda e Belgio, che anteponevano all'approvazione del documento la consegna al Tribunale penale internazionale per l'ex Jugoslavia dell'ex generale serbo-bosniaco Ratko Mladić, ricercato per il massacro di Srebrenica del luglio 1995, e dell'ex presidente serbo-bosniaco Radovan Karadžić, hanno fatto naufragare l'accordo. Alla fine con il solito escamotage diplomatico si è pervenuti ad un accordo ad interim, in attesa della cattura dei due criminali di guerra. Questa sistemazione ha forse contribuito alla vittoria del filooccidentale Tadic sul nazionalista Nikolic alle presidenziali serbe di febbraio. Risultato che, così come quello delle elezioni di maggio dopo le dimissioni di Kostunica, ha fatto tirare a Bruxelles un sospiro di sollievo. Dunque non tutto è perduto con la Serbia, anche se non certo per merito dell'Ue, che sembra fare di tutto per mettere in difficoltà il governo di Belgrado. Dall'entourage del presidente Tadic arrivano segnali “rassicuranti” riguardo alla volontà di entrare in Europa. Ma l'Unione deve continuare a puntare su quella che sinora si è rivelata essere la sua strategia vincente, ossia l'attrattiva dell'integrazione. Dunque bisogna dare alla Serbia, così come al Kosovo e agli altri Paesi balcanici, motivo di aspirare ad entrare nella famiglia europea. La chiave per la stabilizzazione e lo sviluppo della regione sta proprio nel modo in cui l'Unione affronta il problema, forse anche più dei contenuti effettivi delle politiche. Poiché nei Balcani spesso un gesto simbolico, ma chiaro, è percepito come molto più significativo di una azione concreta, ma ambigua. Dunque è necessario che l'Ue mandi i giusti segnali non solo ai politici ma al popolo, che ha sempre più voglia di benessere e prosperità e che può essere davvero l'unico fautore della propria rinascita dal buio balcanico.


3. Le nuove sfide per il Kosovo: una partita ancora aperta

Con la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non si è arrivati alla fine di un percorso, bensì si apre semplicemente una nuova fase, se positiva o negativa solo il tempo potrà dirlo. La partita è ancora aperta su due fronti: uno esterno, come abbiamo visto, dove sembra che il comportamento di altri attori, sicuramente più rilevanti a livello globale, ne determineranno l'esito, e uno interno, dove il nuovo governo, finalmente “indipendente”, dovrà cercare di avere la meglio su quelle stesse problematiche che hanno determinato il fallimento della missione internazionale. Vediamo dunque in che modo queste si ripresentano e se sia possibile una stabilizzazione finale della situazione.


3.1 I problemi interni

Il 17 febbraio 2008 è ufficialmente nato un nuovo Stato, la Repubblica del Kosovo, che va ad aggiungersi alla folta e variegata famiglia della comunità internazionale. Ma una proclamazione politica non va a cancellare come per magia tutti problemi che incombevano sino al giorno prima. Come giustamente sostiene Mini, cambiamento istituzionale non ha significato cambiamento dei protagonisti interni, così come non ha cancellato d'improvviso tutti i problemi. In particolare le questioni più rilevanti si presentano in tre campi principali: la politica, l’economia e la criminalità.

Innanzitutto la leadership kosovara si è dimostrata poco capace di attuare quelle riforme di governo necessarie a soddisfare gli standard previsti. Inoltre uno dei principali problemi della politica in Kosovo è la personalizzazione del potere. Ancora oggi i partiti sono eredi soprattutto delle due scuole politiche dominanti sin dal 1989, ossia quella che si ispira alla non-violenza di Rugova e quella che fa riferimento alla lotta armata dell'Uçk, da cui derivano il Pdk di Thaçi (oggi primo ministro) e l'Aak di Haradinaj. Dunque ciò ci fa capire come i protagonisti della scena politica kosovara non siano cambiati, anzi la tendenza sia sempre più quella  della riaffermazione degli interessi dei soliti noti. Forse anche questo è un motivo della bassa affluenza alle urne. La gente ormai non ha più fiducia in una classe dirigente considerata corrotta e inefficiente. Inoltre oggi il primo ministro è Thaçi, ossia un ex esponente dell’Uçk che, per quanto compia uno sforzo di immagine volto a cancellare il suo passato da guerrigliero, rimane comunque uno dei responsabili delle violenze contro i serbi e l'espressione di una parte della società kosovara tutt'altro che democratica e rispettosa dei diritti altrui. Particolare non irrilevante, poiché va a danneggiare molto la credibilità dei governi occidentali, accusati di sostenere un governo guidato da ex terroristi.

La seconda problematica che deve affrontare il nuovo Stato è in campo economico. Contrariamente alla tendenziale crescita del resto della regione balcanica, il Kosovo ha registrato una forte stagnazione economica. Solo dal 2006 c'è stata una lenta ripresa con la crescita del PIL a un tasso del 3%. L'espansione del settore privato (piccole e medie imprese) sembra essere il motore della rinascita. Tuttavia i maggiori ostacoli allo sviluppo economico sono le interruzioni di energia elettrica, la debolezza delle istituzioni pubbliche e la mancanza di manodopera qualificata. Il tutto condito da un tasso di disoccupazione che si aggira attorno al 40% costantemente alimentato dal più alto tasso di natalità in Europa. Il raggiungimento dell'indipendenza non significa immediata crescita economica, anche se finora l’incertezza dello status era causa delle esitazioni dei vicini, poiché non sapevano in che modo rapportarsi con questa entità. Quindi lo sviluppo economico sarà legato principalmente alla normalizzazione dei rapporti con i Paesi limitrofi, da cui dovrebbero provenire la maggior parte degli investimenti, in vista di un'integrazione a livello regionale. Tuttavia l'attrattiva del mercato kosovaro è fortemente danneggiata dalle carenze infrastrutturali, dalla corruzione e dalla criminalità, che disincentivano i possibili investitori esteri. Per ora la partecipazione al Trattato sulla comunità energetica tra Ue e Europa sudorientale e all'Accordo di libero scambio in europa centrale e orientale (Cefta 2006) non hanno portato i frutti sperati. Al momento è indubbio che le maggiori entrate per l'economia kosovara provengano dalle rimesse della diaspora e dagli investimenti dell'amministrazione internazionale. Ma nella previsione di un calo dei benefici provenienti da questi due pilastri in che modo il Kosovo provvederà al proprio sostentamento? Sarà in grado di aumentare la produttività e l'occupazione?

Il terzo problema è di tipo sociale, e per questo forse più difficile da affrontare. Tradizionalmente la società albanese kosovara si fonda sulla struttura della famiglia allargata, del clan, al quale si appartiene per sangue, per matrimonio o per appartenenza territoriale. Esso è il centro in cui si formano gli interessi economici, gli orientamenti politici e religiosi, i comportamenti sociali. Il clan è un modello organizzativo molto pratico e resistente in aree da sempre al centro di conquiste e interesse di altri popoli. Questa realtà rende  difficile estirpare il modello criminale dalla società kosovara proprio perché, soprattutto negli ultimi anni è stata sfruttata la forza impenetrabile del clan, basato su una rete di protezione informale molto efficace, anche nell'era di internet e del cellulare. Col tempo, e sopratutto dalla fine della guerra, i centri criminali si sono espansi beneficiando del buco istituzionale lasciato dalla cacciata dei serbi, andando a controllare non solo i settori illegali ma instaurando forti legami con gli ambienti politici ed economici del Paese. Già in precedenza le possenti emigrazioni del 1991-92 e del 1997 avevano favorito l'internazionalizzazione delle mafie kosovare, che in collaborazione con quelle turche, bulgare, albanesi, serbe, macedoni, croate, slovene ma anche italiane (la 'ndrangheta calabrese) avevano creato strutture ben organizzate all'estero, che si pongono come ponte di traffici illeciti transfrontalieri, in un mondo (e l'Europa in particolare) dai confini sempre più permeabili. Il Kosovo è geograficamente posto nel mezzo delle rotte dell'illegalità, a fare da intermezzo per il passaggio di donne dell'est europeo da avviare alla prostituzione, di armi per la guerriglia, e di droga proveniente dall'Asia centrale (Afghanistan in testa). In questo modo è stabilito un collegamento diretto tra centri di produzione asiatici, Europa centrale e orientale, fino nel cuore dell'Ue. Il caso delle bande albanesi nel Nord Italia ne è un esempio eclatante. Ma a parte la globalizzazione del crimine organizzato, che dovrebbe essere il primo problema per la sicurezza europea  e soprattutto italiana, la questione centrale per l'analisi del sistema kosovaro è il grado di infiltrazione del fattore illecito nella società. Strazzari ne dà un'idea chiara individuando nella “separazione radicale del concetto di legittimità sociale dalla nozione di legalità” il cuore del problema. In Kosovo la pratica illegale è spesso ritenuta socialmente legittima, quindi giustificata e protetta da quel sistema clanico-familiare. Non solo, poiché il crimine organizzato costruisce la propria forza sulle disuguaglianze e sulla mobilità sociale, un'attività illecita come il contrabbando, ad esempio, è vista come una compensazione per le ingiuste barriere tariffarie imposte dai Paesi ricchi. Inoltre il reclutamento in bande criminali, oltre che fornire protezione e garantire un ruolo sociale, spesso e volentieri va a compensare le mancanze dello Stato (cioè dell'Unmik dal 1999 fino a buona parte del 2008), costituendo una buona fonte di remunerazione. In questo quadro i fenomeni di collusione tra politica e mafia, più che un'eccezione, sembrano essere la regola. Sempre Strazzari sottolinea come la fine del conflitto coincida con una stabilizzazione delle lotte interne per il controllo del territorio. Ciò che colpisce è che, a differenza degli altri Paesi dell'Europa sud-orientale che dopo i conflitti videro aumentare il tasso di crescita,  l'economia kosovara, ancora dopo nove anni, è in una fase di stagnazione. Questo è appunto il risultato di una shadow economy che affligge irrimediabilmente il Kosovo. Gli elementi principali sono: traffici e racket mafiosi; corruzione, frodi economiche e pratiche nepotistiche negli affari e nella vita pubblica; strategie economiche di sussistenza della popolazione. Così la società kosovara, si sviluppa lungo due direttrici parallele che si intersecano e si sostengono reciprocamente: un Kosovo di superficie, quello dell'amministrazione internazionale, e un Kosovo sommerso, profondo e ben radicato in ogni settore della vita pubblica e sociale. Quest'ultimo ha strutture informali che controllano non solo le attività illecite ma che svolgono anche varie funzioni a seconda dei tempi e delle necessità, e che rendono conto a importanti partiti politici. Tale network mafioso clanico-familiare si sviluppa in quattro sfere tra loro connesse: la politica, la militanza, l'imprenditorialità economica e le pratiche criminali vere e proprie. Insomma la struttura sarebbe quella di un'oligarchia tra clan “allargati”.

Alla luce di queste considerazioni è evidente come qualsiasi attività connessa con la gestione di ingenti risorse economiche, come ad esempio il settore dell'edilizia, sia un importante banco di prova per i vari clan. Tutto ciò va a complicare il ruolo della stessa Kfor che ha trovato non poche difficoltà nel combattere il fenomeno. Il risultato che ne scaturisce sono le inique confische da parte degli uffici anticrimine e la provata difficoltà di perseguire quelli che sono considerati gli intoccabili, così come non sono rari i fenomeni di minaccia e intimidazione alla polizia, ai giudici, ai procuratori, ai testimoni. Queste problematiche sono le stesse che hanno dall’interno, nella gestione diretta del territorio, hanno causato il fallimento della missione internazionale.

Questo quadro appena descritto sembra assegnare al Kosovo un destino alquanto inquietante. Ma forse i più spaventati non sono tanto i kosovari quanto noi europei, che andiamo a buttarci in prima linea nella partita ancora aperta per la democratizzazione del Kosovo e che dobbiamo assolutamente vincere. Ne va della nostra credibilità, e forse dello status internazionale a cui aspiriamo. Il fatto che il primo ministro Thaçi sia un ex militante dell'Uçk non è un problema per i kosovari, che hanno anche sostenuto i metodi violenti della guerriglia, ma è fonte di preoccupazione per l'Europa proprio perché il leader kosovaro rappresenta quel aspetto della società clanico-mafiosa del Kosovo, che a suo tempo l'Unmik e la Kfor non sono stati in grado di contrastare.


3.2 Le possibili vie d'uscita: una nuova spartizione?

All'interno del caos balcanico l'indipendenza del Kosovo lascia ancora molte questioni in sospeso. Oltre al futuro interno, per alcuni, ciò che è in gioco è anche un'eventuale futura spartizione.

Ma andiamo all'origine del problema. Innanzitutto bisogna dare ragione a Konomi quando afferma che ad oggi effettivamente gli albanesi si trovano divisi in cinque Stati: Albania, Kosovo , Macedonia, Montenegro e Serbia. Mentre nei primi due casi siamo di fronte a Stati etnici, negli altri gli albanesi costituiscono una minoranza. La problematica che emerge è che spesso tali gruppi vanno a occupare una parte di territorio dello Stato ospitante, dove in realtà diventano maggioranza. È il caso ad esempio della parte meridionale della Serbia, abitata praticamente solo da albanesi che si concentrano nelle città di Preševo, Medvedja e Bujanovac. Quest'area, alla fine della guerra, entrò a far parte di una buffer zone smilitarizzata, creata all'interno della Serbia lungo tutto il confine amministrativo con il Kosovo. Tra il giugno 1999 e il novembre 2000 ci furono diversi scontri tra l'Esercito di liberazione di Preševo, Medvedja e Bujanovac (Ucpmb) e la polizia serba, con diversi morti, e ancora nell'agosto del 2007. La valle è sin dal 1999 attentamente controllata attraverso la collaborazione di polizia serba e Kfor, ma dal 2006 gli albanesi chiedono con forza uno statuto speciale.

L'indipendenza kosovara apre nuovi scenari. Qosja ad esempio suggerisce una ripartizione etnica del Kosovo, con lo scopo finale di arrivare a una riunificazione con l'Albania. Il sindaco di Mitrovica Rexhepi, invece, si limita a sostenere la cessione della parte nord della regione, ma non una divisione della città, in cambio della Valle di Preševo, che gli albanesi chiamano Kosovo orientale. Ahmeti, ex leader dell'Esercito di liberazione nazionale della Macedonia, afferma che non è necessario un'accelerazione di un fenomeno che è già in atto. Secondo lui la riunificazione degli albanesi è ormai avviata, e allo stesso modo anche i macedoni seguiranno la stessa sorte.

Ma, in generale, l'opzione di una ulteriore spartizione etnica è al momento fortemente avversata dagli Stati Uniti, per i quali significherebbe una contraddizione rispetto al principio della multietnicità su cui si fonderebbe il Kosovo (a loro parere), poiché lascerebbe di fatto uno Stato etnico. Ma anche perché vorrebbe dire concedere una, seppur limitata, vittoria alla Serbia, cosa che, indipendentemente dal partito al potere a Washington fino al 2008, non è nemmeno contemplabile. Vediamo come si porrà la nuova amministrazione di Obama.

Dunque il Kosovo indipendente è uno Stato ancora instabile e insicuro, di fatto frammentato per la presenza di minoranze che non godono di pari diritti e che devono essere sorvegliate dalle forze Kfor, non effettivamente sovrano sul suo territorio, con un tasso di illegalità altissimo, alle prese con un processo di riforma e di institution building che si prevede molto lungo a causa di paralisi istituzionali e la permanenza di frozen conflicts. In questo scenario disastroso le contraddizioni finora emerse della gestione internazionale andranno a riflettersi anche sulla missione europea? Esiste dunque una way out per il Kosovo o è tutto irrimediabilmente perduto?

Forse una speranza ancora c'è, e si chiama Unione Europea, nonostante tutte le sue anomalie e contraddizioni interne. Dopo il fallimento del progetto internazionale dell'Onu che voleva un'indipendenza guidata, ora l'Ue deve prendere atto della nuova realtà, che può essere orientata nella direzione giusta. L'Unione possiede degli strumenti unici per la promozione della democrazia, e forse sono oggi i soli in grado di risolvere l'ennesima impasse balcanica. L'Ue deve utilizzare più efficacemente possibile le potenzialità di attrattiva date dalla condizionalità, sia positiva che negativa. Ma anche da strumenti meno diretti. Perché, infatti, non puntare anche su delle forme di spill-over tra l'ambito economico e quello politico? Il Patto di stabilità e il Processo di stabilizzazione e associazione vanno proprio in questo senso. Inoltre non è da escludere la possibilità di creare degli strumenti ad hoc per quei Paesi della regione balcanica (e non solo) dove permangono situazioni di paralisi istituzionale, che bloccano sul nascere lo sviluppo economico. Si tratterebbe di creare una sorta di forum trilaterali in cui l'Ue svolge un ruolo di arbitro tra le due entità territoriali reciprocamente riconosciute. Sarebbe il caso della Bosnia e della Repubblica Srpska, ma anche della Serbia e del Kosovo. In questo modo la prospettiva europea tornerebbe in primo piano nelle agende politiche degli Stati regionali, e di conseguenza i governi balcanici si impegnerebbero di più per il raggiungimento degli standard richiesti, cosa che a sua volta porterebbe a una maggiore stabilità, poiché se si spende di più sullo sviluppo l'economia cresce e con essa il benessere generale. Quindi verrebbero meno i motivi di tensione sociale che causano scontento e instabilità. È un circolo vizioso a cui prima o poi bisogna mettere fine. Inoltre con questi forum ad hoc l'Unione potrebbe controllare il processo di adesione ancora più da vicino.

Insomma, la disgregazione della Jugoslavia ha significato dieci anni di guerre e di sofferenze per milioni di persone. Ora però, chiusa la porta delle lotte etniche, si è aperto il portone dell'Europa. La costituzione di accordi di scambio preferenziale, ad esempio la creazione di un’area di libero scambio, potrebbe fornire un grosso incentivo per le imprese regionali ad aumentare la produzione, con gli effetti positivi che ne deriverebbero, e allo stesso tempo darebbero prova degli enormi benefici che si possono trarre dal mercato europeo anche ai governi più euro-scettici, come la Serbia. In questo modo sarebbe davvero possibile uno spill-over da integrazione economica a integrazione politica.  

Le responsabilità delle giuste scelte per il futuro dell'intera regione sono tanto a Bruxelles quanto a Belgrado, a Sarajevo, a Zagabria, a Podgorica, a Tirana, a Skopje e a Priština. I Balcani occidentali devono lasciarsi alle spalle la nomea di polveriera dei conflitti europei, e, spartizione o no, bisogna lavorare tutti insieme per la stabilità e la crescita della regione creando le condizioni per l'avvio di una fase di cooperazione e di apertura economica, l'unica via per garantire sviluppo, prosperità e stabilità.

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