CONCLUSIONE


Con questa ricerca si è cercato di dare una visione d’insieme della crisi del Kosovo, a partire dal 1989 fino agli ultimi mesi del 2008. L’idea di fondo è che tale crisi si inserisca in un più ampio contesto storico e politico e che, proprio per questo motivo, necessiti di essere analizzata a diversi livelli e in ogni suo aspetto. A questo proposito è stato seguito un approccio tendenzialmente induttivo, ossia partendo dall’analisi dei fatti si è cercato di costruire un filo logico che collegasse tra loro gli eventi più significativi al fine di descrivere le modalità in cui si è evoluta la vicenda. Così facendo è emerso che è possibile suddividere la crisi del Kosovo in tre fasi principali tra loro collegate da una serie di concause che si sono susseguite secondo un criterio di causa-effetto.

Dunque la tesi di fondo è che la crisi scoppi per dei motivi ben precisi, sia di natura profonda che di natura contingente, e allo stesso modo che si sviluppi gradualmente lungo una direttrice causale. In poche parole si è dimostrato che la particolare situazione che caratterizza oggi il contesto kosovaro non sia altro che l’effetto di scelte e di avvenimenti che si sono verificati nella fase precedente, così come la realtà presente in Kosovo dal giugno del 1999 al febbraio del 2008 sia stata la ovvia conseguenza dell’intervento della Nato, al quale a sua volta si è arrivati a causa di una serie di fattori che hanno determinato il fallimento della diplomazia.

Sempre tenendo sullo sfondo questo criterio di causa-effetto, è stato evidenziato che le variabili che intervengono nello sviluppo della crisi sono di due tipi: costanti e discriminanti. Nel primo caso si tratta di elementi ricorrenti che si ripresentano inesorabilmente in ogni fase della crisi, ossia le ambiguità e le contraddizioni delle fonti giuridiche, a partire dalle giustificazioni della guerra, dalla risoluzione dell’Onu e dal mandato della missione internazionale, fino alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Nel secondo caso si tratta delle azioni e degli approcci contrastanti dei vari attori che intervengono nella vicenda: Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite. In tal modo è stato sottolineato come le sorti del Kosovo siano dipese, e dipendano, in modo significato dal potere di influenza dei colossi della politica internazionale.

Da un punto di vista generale ciò che emerge da questo lavoro è che il Kosovo è un caso davvero unico, per via di una serie di fattori e di interessi che vengono a intersecarsi in una particolare congiuntura storica e che fanno di una piccola provincia, dimenticata perfino dagli europei, un teatro di scontro tra grandi potenze.

Il lavoro è stato suddiviso in tre parti che corrispondono alle fasi in cui si sviluppa la vicenda. Nella prima parte si è partiti dalle cause profonde della crisi per poter constatare che il conflitto, nato sostanzialmente da rivendicazioni di tipo territoriale, è molto complesso da analizzare, poiché derivante da una storia secolare di culture e tradizioni contrastanti che si sono trovate a dover spartire la stessa fetta di territorio. In seguito è stato mostrato come, all’interno del caotico contesto di disgregazione della Jugoslavia, i forti sentimenti nazionalistici siano stati usati come motore per la messa in atto di terribili violenze e palesi violazioni dei diritti umani. Inoltre in questa prima parte si è posto l’accento essenzialmente su due aspetti: l’approccio alla crisi da parte di alcuni importanti attori e l’intervento della Nato. Se da un lato emerge che chi avrebbe dovuto occuparsi di ciò che stava accadendo in Kosovo, cioè l’Unione Europea, era in realtà incapace e impreparata a risolvere un problema in casa propria, dall’altro i 78 giorni di campagna aerea della Nato contro la Serbia aprono la strada a numerosissime critiche e considerazioni di tipo giuridico. In questo senso infatti è stato sottolineato come l’intervento della Nato sia stato condotto formalmente in violazione delle norme di diritto internazionale. Con questa prima parte dunque è stato mostrato un primo aspetto dell’unicità del caso kosovaro, da cui è emerso il primo insieme di cause che servono a spiegare la situazione attuale. 

Nella seconda parte sono stati trattati i temi centrali che hanno caratterizzato la crisi del Kosovo dal giugno del 1999 al febbraio del 2008. In primo luogo è stata descritta la struttura della missione internazionale guidata dall’Onu. In particolare ci si è soffermati sul mandato dell’amministrazione provvisoria, legittimata dalla risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, per evidenziare le profonde contraddizioni insite in tale documento, che riconosce la sovranità della Jugoslavia sul Kosovo ma al tempo stesso autorizza una missione internazionale a occuparne il territorio senza alcuna approvazione da parte di Belgrado. Ugualmente è stata mostrata la discrepanza tra ciò che è affermato sulla carta, cioè l’amministrazione transitoria dell’Onu che sarebbe servita a favorire lo sviluppo di un apparato istituzionale democratico e stabile governato dai kosovari, e quella che è la reale situazione locale, cioè il totale controllo di ogni struttura di potere da parte dei funzionari internazionali. In tal modo è stato dimostrato che il progetto dell’Onu è fallito per cause derivanti dalla stessa inefficacia e ambiguità della missione. La fine della guerra, infatti, è stata vista, dai vertici onusiani (ma anche da Stati Uniti e Europa occidentale) come l’occasione per costruire un esempio positivo di risoluzione pacifica di un conflitto, ma il risultato è stato solo quello di creare un pericoloso precedente per altre possibili rivendicazioni autonomistiche. In secondo luogo è stato dato ampio spazio all’analisi degli attori internazionali che sono stati protagonisti nella crisi: Usa, Russia, Ue e Onu. In questo caso si è partiti dal presupposto che la crisi del Kosovo si inserisse all’interno di un insieme di interessi contrastanti, poiché appunto sviluppatasi in un particolare contesto storico. È evidente che la disgregazione della Jugoslavia, e gli stravolgimenti territoriali che seguirono (soprattutto la guerra in Bosnia e in Kosovo), vanno a coincidere con una redistribuzione della potenza nel sistema internazionale a seguito della fine dell’era bipolare. Dunque, a seconda dell’attore preso in esame, sono stati evidenziati dei punti di vista e delle percezioni differenti di ciò che avveniva nei Balcani. È stato mostrato infatti come Stati Uniti e Russia, in primis, considerassero il Kosovo come un teatro importante per la riaffermazione della loro supremazia, sia in termini militari che in termini politici. Nel caso americano è stato spiegato in che modo la crisi rientrasse in una strategia globale di affermazione del proprio ruolo di superpotenza egemone. Nel caso russo si è dimostrato come Mosca mirasse a riprendere il controllo di quelle che da sempre considera come sue zone di influenza, partendo dunque dall’Europa, al fine di riacquistare un ruolo di primo piano. Per quanto riguarda l’Ue è stata sottolineata la sua disunità in politica estera, la sua indifferenza iniziale verso un problema interno ai confini europei e in seguito la sua incapacità di gestire tale crisi, ma soprattutto è emersa la sua dipendenza dall’apparato Nato e quindi dagli Stati Uniti. Infine è stata evidenziata la profonda crisi che l’Onu sta attraversando ormai da molti anni, resa ancor più evidente dal fallimento della missione provvisoria. In terzo luogo è stata richiamata ancora una volta l’attenzione sulle ambiguità dell’assetto giuridico del Kosovo e dunque sul vero problema rimasto irrisolto, ossia lo status. In pratica tra il 1999 e il 2008 siamo di fronte a un territorio autonomo de jure ma sotto protettorato internazionale de facto. È stato dimostrato come questo fattore fosse causa di perenne instabilità tra i vicini regionali e di frustrazione tra i kosovari. Quando i funzionari dell’Onu si accorgono che è impossibile protrarre all’infinito una situazione di limbo perenne è ormai troppo tardi. Il tentativo di conciliare le richieste serbe con quelle kosovare fallisce, anche a causa delle contrapposizioni tra grandi potenze (soprattutto i membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, Russia e Stati Uniti), e accade ciò che si temeva maggiormente, ossia una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Le ambiguità giuridiche sullo status, i motivi che hanno determinato il fallimento della missione Onu e l’approccio contrastante tra i diversi attori vanno dunque a costituire il secondo insieme di cause che spiegano l’attuale situazione.

Nella terza parte sono stati presi in esame i primi mesi di vita del nuovo Stato, dal febbraio al dicembre 2008. Anche in questo caso il lavoro ha preso in esame le tematiche principali che sono emerse dallo scenario kosovaro. Nel primo paragrafo è stato analizzato il problema del riconoscimento e, ancora una volta, l’ambiguo status giuridico. A questo proposito si è sottolineato come la prima questione fosse in realtà un problema secondario ai fini dell’esistenza della Repubblica del Kosovo. Infatti ciò che fa di uno Stato un soggetto di diritto internazionale è l’effettività, ossia la sua sovranità su un determinato territorio e nei confronti di un preciso gruppo di individui. È stato dimostrato come il governo kosovaro fosse sovrano de jure ma dipendente de facto. Infatti se da una parte la dichiarazione d’indipendenza sancisce sulla carta la libertà da ogni condizionamento esterno, dall’altra si assiste al perdurare della presenza di forze internazionali sul territorio kosovaro, principalmente con funzioni di polizia (la Kfor) e di controllo giuridico-istituzionale (la missione europea Eulex). Inoltre ancora una volta sono state ribadite le contraddizioni che sussistono tra fonti giuridiche. Il permanere della validità della risoluzione 1244, che afferma la sovranità jugoslava sul Kosovo ma al tempo stesso legittima la presenza di un governo provvisorio internazionale; il Piano Ahtisaari, che stabilisce un programma per un’indipendenza guidata e insieme la validità della risoluzione 1244; l’Atto di Helsinki del 1975, che stabilisce l’immutabilità dei confini per mezzo della forza, ma che è stato ripetutamente violato sia con l’intervento della Nato, sia con la risoluzione 1244, sia con la dichiarazione unilaterale di indipendenza. Insomma questo è il caotico contesto giuridico-politico in cui versa oggi il Kosovo. Nel secondo paragrafo è stato affrontato ancora una volta il tema dell’ingerenza dall’esterno, ma anche delle ripercussioni che la nascita del nuovo Stato ha avuto sui vicini regionali e sulla Serbia in particolare. Se infatti è stato dimostrato che i grandi attori possono influire sullo sviluppo della crisi, allo stesso modo è evidente che la Serbia può essere fonte di stabilità o instabilità regionale a seconda delle scelte che farà in futuro. Al momento sembra chiaro che Belgrado abbia optato per una linea dura di contrapposizione all’indipendenza del Kosovo, tuttavia è stato altresì dimostrato che l’attrattiva dell’Europea, e dei benefici che deriverebbero da un eventuale ingresso nell’Ue, rappresenta una scelta molto più conveniente per il futuro, con la presa d’atto dell’irrecuperabilità del Kosovo. Per concludere la descrizione della situazione attuale, nel terzo paragrafo ci si è soffermati su una serie di problemi intrinseci al modello sociale albanese kosovaro. È stato dimostrato in particolare come l’endemica tendenza alla collusione tra politica e poteri mafiosi possa rappresentare un reale pericolo per la democraticità e funzionalità del governo kosovaro, ma anche per la stabilità dell’intera regione balcanica.

Per finire si è cercato di fare un  feedback generale di quello che emerge da questa tesi, basandosi sull’idea che una via d’uscita dal caos balcanico sia davvero possibile. Innanzitutto è bene sottolineare che non si è voluto cercare una soluzione definitiva e risolutiva della crisi del Kosovo. È stato però dimostrato come l’evoluzione di tutta la vicenda dal 1989 al 2008 sia stata determinata da una serie di concause che si sono susseguite secondo un criterio di causa-effetto. L’analisi della crisi è stata infatti suddivisa in tre fasi principali, in ognuna delle quali si può individuare un insieme di circostanze, di avvenimenti, di decisioni che vanno a costituire le cause principali prima dello scoppio della crisi, poi della guerra e in seguito del fallimento della missione internazionale. Si dimostra infatti come l’indipendenza non sia altro che un’inevitabile conseguenza della disgregazione della Jugoslavia nella prima metà degli anni ’90. Dal momento in cui nascono le prime istituzioni albanesi parallele era chiaro che, presto o tardi, ci sarebbe stata un’escalation di violenze che avrebbero portato a un conflitto aperto. Così come era chiaro, alla fine della guerra, che il Kosovo aveva iniziato un processo irreversibile che avrebbe portato all’indipendenza. Tutti insieme questi fattori spiegano la situazione attualmente presente in Kosovo e il perché, dopo vent’anni, i più potenti attori del sistema internazionale non siano riusciti a stabilizzare un territorio relativamente piccolo con poco più di due milioni di abitanti.

L’indipendenza del Kosovo non rappresenta un punto d’arrivo, bensì l’inizio di una terza fase i cui sviluppi sono ancora difficili da prevedere. Tuttavia si è sottolineato più volte come l’Unione Europea possa essere il motore per una way out dall’instabilità dei Balcani occidentali. Esercitando tutto il suo potere di attrattiva l’Ue può creare le condizioni per un’integrazione economica sia a livello regionale, cioè tra i Paesi balcanici, sia a livello europeo, con la creazione di un’area di libero scambio volta a favorire l’aumento del volume del commercio. Dalla cooperazione in campo economico, che dovrebbe servire ad aumentare la competitività e la crescita della produttività interna a ogni Stato, si passerebbe dunque all’integrazione politica nelle strutture comunitarie.

Dunque la partita in Kosovo, e nei Balcani, è ancora aperta, ma siamo ancora ben lontani dal raggiungimento di un risultato definitivo. In quanto europei è fondamentale riuscire ad ottenere un’influenza politica soprattutto verso Stati chiave (come la Serbia), attualmente fortemente messa in discussione dalla Russia che ha nella politica energetica un potente strumento di contrattazione. Ma se Mosca ha come unica possibilità per ottenere il controllo dei Balcani quella di cooptare ciò che rimane della Jugoslavia all’interno della propria sfera di influenza (con la minaccia della forza o, soprattutto, facendo leva sulla dipendenza economica della Serbia nei confronti della Russia), Bruxelles ha la possibilità di ottenere il consenso degli Stati balcanici senza il minimo utilizzo di hard power. La potenza europea sta nella sua capacità di attrattiva: integrazione nell’Ue significa crescita e sviluppo economico, da cui derivano benefici in termini di benessere e ricchezza individuale. In questo modo verrebbero meno i motivi di tensione sociale che portano a concentrarsi su anacronistici ideali nazionalisti e a considerare la causa di tutti i problemi la presenza di “invasori” di un’altra etnia. Al contrario i governi balcanici si focalizzerebbero su questioni più pragmatiche e ben più importanti per la crescita del proprio Paese. Per questo motivo l’opzione europea appare l’unico modo per garantire una stabilizzazione duratura di tutta la regione dei Balcani occidentali.

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